La morte che non chiede permesso e arriva d’improvviso, entra chissà come e chissà da dove, o con chi. Quella morte che avevano sfiorato tante volte, in Paesi dove vivere è quasi un lusso e la povertà fa male come un ago confitto nella carne.
Un convento è un’oasi spirituale, un’isola di preghiera e solidarietà, il luogo dove meditare e invecchiare, nel nome di quel Dio cercato per le vie del mondo e fatto conoscere a chi ne era lontano. In un convento dovrebbe regnare la pace, la serenità, e da lì partire parole e gesti per lenire il dolore di chi soffre là fuori, in un mondo improvvisamente capovolto, in cui un nemico invisibile inscena una tragedia di guerra. Ora quel nemico ha oltrepassato le mura del convento di Buccinigo di Erba, portato forse da un “cavallo di troia”, qualcuno venuto da fuori, inconsapevolmente contagiato, un missionario di morte, come missionarie di vita e speranza sono state invece le cento suore di Erba, che portavano a chi soffre la parola del Signore, come volle Daniele Comboni, fondatore del loro ordine, le Suore missionarie pie madri della Nigrizia.
Le suore sono anziane, alcune malate, arrivate lì da tutta Italia, e ognuna di loro ha una storia da raccontare, quella di chi, magari sessant’anni fa, partiva per l’Africa, dopo essersi consacrata a Dio, a lottare perché i più deboli avessero un sostegno, una parola buona, ci fossero scuole e ospedali e gli occhi dei bambini luccicassero finalmente di gioia.
Oggi è difficile pensare a una monaca, la si immagina senza età e quasi senza corpo, un’entità misteriosa, appartenente più al passato, magari a un verso di una canzone di Guccini: «Vecchie suore nere in quelle sere avete dato a noi il senso del peccato e di espiazione…», una persona che vive la sua vita in un mondo altro, fatto di silenzi e preghiere, di monasteri impenetrabili e romiti. E per lo più la si immagina anziana, curva nelle sue vesti lunghe a recitare il rosario nelle piccole chiese di paese, dove il tempo sembra essersi fermato.
Ma le religiose di Buccinigo sono state donne, giovani, forti e determinate, coraggiose, in anni in cui l’Africa era ancora il continente nero, e solo la fede dava sostegno di fronte a pericoli continui, a siccità e carestie, a sguardi disperati o furenti, a tamburi di guerra. Le giovani donne di allora adesso stanno morendo una dopo l’altra, come capitava con i bambini in Etiopia nel 1953, quando suor Letizia Zoia, l’ultima delle 16 vittime all’Istituto Pie Madri della Nigrizia di Buccinigo, partì ventenne come infermiera lasciando famiglia e affetti.
Il vaccino non è entrato con la facilità del virus tra le mura del convento, i dubbi, gli intoppi burocratici, la negligenza, le promesse disattese dei politici, fanno sì che molti vecchi rischino ancora ogni giorno la vita, vittime di ritardi a volte inspiegabili in una campagna partita a singhiozzo.
La nostra società ha un debito con gli anziani, ma non lo vuole pagare, nel nostro mondo smart la vecchiaia è un handicap, qualcosa da dimenticare, improduttiva e anche un po’ noiosa, sa di ospizio e malattia, così si ha sempre meno attenzione per il passato e il vissuto di una persona, la si accantona, come un oggetto superato o fuori moda. Non sappiamo o vogliamo più ascoltare chi ci ha voluto bene, chi ha creduto in un ideale e ha aiutato il prossimo per l’intera vita, a volte sacrificando la propria in nome della fede cristiana, e così perdiamo la memoria di noi stessi, e la possibilità di apprendere il linguaggio degli affetti e della compassione.
Le suore avevano come alleati il silenzio e il tempo, un tempo diverso dal nostro, quello della meditazione e del ricordo, dello spirito che tiene compagnia, della voglia di fare del bene. Un tempo che noi, da troppo, non sappiamo più battere in sincrono.
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