Siamo ripiombati negli anni Settanta. No, niente paura. Le tensioni di piazza per la politica (almeno, per ora) non c’entrano. Parliamo di pallone. Di calcio. Di footbal. Rimettetevi comodi. Epperò questa è proprio la sensazione che ci ha lasciato il martedì dello Juventus Stadium. Chi è abbastanza vecchio per averli vissuti, capisce a cosa ci riferiamo. Senza stranieri per ragioni strategiche, le nostre squadre, se si affacciavano ai quarti di finale delle competizioni più importanti, era già un miracolo. Le voci di Ameri e Ciotti (la tv entrava in azione, nel caso, più avanti) alla radio raccontavano battaglie impossibili, dove la circolazione della palla dettata dai nomi stranieri e affascinanti era inaccessibile per i lenti pedatori italici. Una semifinale di Coppa Campioni era un evento da mettere in bacheca, ma ti rimaneva l’impressione di una impossibilità generica a offendere.
Oggi l’esposizione mediatica impone agli urlatori di professione di celebrare un passaggio agli ottavi come un successo in finale, allora c’era più equilibrio. E i nomi stranieri, oggi, sono la normalità anche da questa parte della barricata. Ma le differenze si fermano qui. Come allora, esce la fotografia di un calcio impotente, vecchio, debole, sorpassato. Fuori dalle Coppe e persino dai Mondiali. Come (quasi) nel 1974 , quando finimmo fuori dal Mondiale tedesco tra polemiche e pomodori. Ieri radio e tv hanno fatto a gara nel cercare di identificare motivi e colpe. Che poi sono sempre gli stessi. Un particolare, però, continua a essere sottovalutato: l’immagine perdente, vuota, derelitta del nostro calcio all’estero per colpa di chi, inseguendo il business dei pacchetti televisivi e pensando solo al tifoso da divano, ha svuotato gli stadi deprimendo la voglia e la passione del primo utente: il tifoso da stadio.
Sembra un particolare da poco conto, ma non lo è. Ieri ci si lamentava, nei commenti di insigni esperti, della scarsa propensione a investire nel calcio italiano da parte di potenti gruppi esteri. E cos’è, una novità? Una sorpresa? Succede anche nelle sagre di paese. Vuoi che ti sponsorizzi la Fiera della costina? Ok, ma quanta gente viene? Semplice no? E allora, inseguendo il mercanteggio dei diritti, le telecamere in 4K, le partite a tutte le ore in tv, il calcio in Italia si è dimenticato di chi rappresenta uno spot essenziale e formidabile per fare business: i tifosi che riempiono lo stadio. Anche in Germania, in Inghilterra e in Spagna ci sono le dirette tv. Ma lì, gli stadi sono pieni, danno un’immagine di festa, di passione, di calore, di vita. In Italia ci sono spazi vuoti che spingono chi ha i soldi da investire, ad andare altrove. E non credete a chi parla di stadi salotto, cinema, ristoranti, tappeti rossi e hostess. Balle. La verità è che il tifoso non può essere tediato da provvedimenti restrittivi che puniscono solo le brave persone. Che, sfinite, alla fine se ne stanno a casa.
Ora, però, tira aria di cambio di rotta Si molla un po’ la presa, su tessere del tifoso e affini. Vi stanno raccontando che è perché la situazione è migliorata, che ci sono meno fatti cruenti. Boh, può darsi. Ma a noi sembra il cambio di rotta imposto da chi si è rotto le scatole di vendere un prodotto vuoto e triste. A Roma il presidente Pallotta ha dovuto chiedere in ginocchio di abbandonare il progetto delle barriere in curva, perché lo sciopero dei tifosi era un danno di immagine all’estero. Dunque, qualcuno sta capendo. Siamo sempre lì: chi sbaglia, paghi. Gli altri, liberi tutti. Che per vendere il prodotto,deve sembrare una festa. Non un funerale. Poi, certo, all’inizio degli Anni Ottanta qualcuno decise che era giunto il momento di riaprire le frontiere, perché (al di à dei risultati sul campo) non reggevamo più il paragone in appeal con campionati che avevano le stelle straniere. Vedremo se ci sarà qualche illuminato che si inventerà qualcosa. I segnali non sono incoraggianti: a sei mesi dal disastro con la Svezia, non c’è ancora un presidente federale, una strategia, un ct. Però, chissà, magari è solo questione di tempo...
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