Il cambio del direttore in un giornale è uno di quegli eventi ai quali ogni essere umano dovrebbe partecipare almeno una volta nella vita.
Il momento della comunicazione ufficiale spiega già tutto. Anche perché ricalca una delle scene immortali dell’ancor più immortale Fantozzi: quello della nomina a “nuovo direttore totale del dottor ing. Gran Mascalzon di Gran Croc visconte Cobram!”. Gente che sviene, gente che piange, gente che si crocifigge in sala mensa, gente che si autotumula al camposanto “al suono del nome più temuto!”. E che però, indole profondissima che da millenni fa da architrave del consesso sociale, un nanosecondo dopo inizia ad applicarsi al più vasto, variegato, multiforme e, appunto, fantozziano, esercizio di servilismo che si possa immaginare.
Ragazzi, si vedono cose che voi umani non potreste immaginarvi. Redattori di cui si era persa la memoria fuoriuscire dai sepolcri con tanto di taccuino, penna d’oca e cablogramma dei tempi di Carlo Codega, inviati speciali precipitosamente rientrati dall’hotel a cinque stelle a Capri dove si erano recati per raccontare la lotta di classe degli eroici compagni salatori di aringhe, editorialisti con la schiena dritta che loro sì che le cantano ai padroni del vapore che qui siamo i cani da guardia della democrazia e che se però omettessimo di scrivere dei ghirigori del palazzinaro amico del senatore sarebbe meglio, tromboni di ogni ordine e grado che fino a un minuto prima scodinzolavano tra le gambe del direttore uscente e un minuto dopo comiziano alla macchinetta del caffè che era ora di cacciarlo, quello lì, e che quello nuovo invece è uno con due palle così! E poi c’è quello che io lo conosco bene, quello che viva viva la meritocrazia, quello che scartabella su Wikipedia a caccia di aneddoti personali da squadernare al momento giusto, quello che si aggira per la redazione con un foglio in mano giusto per far vedere che ha sempre un sacco di cose da fare, quello che ora mi devono fare caporedattore, quello che diventa interista o juventino alla bisogna e, infine, l’analfabeta di andata e di ritorno che, tutto tronfio e vanesio, declama alle folle: “Questo qui è bravissimo, ho appena finito di leggere il suo ultimo saggio!”. Poi, naturalmente, ci sono quelli - tanti - che se ne stanno in disparte e pensano a lavorare. Ecco, quelli lì sono gli unici in gamba.
Questa scenetta metaforica della nostra misera parte nella commedia umana, che chiunque abbia superato i cinquanta si è sorbito almeno una mezza dozzina di volte - e basta guardare i Tg Rai nella gestione sovranista per avere la conferma di come quelli che dovevano cambiare tutto hanno solo cambiato i vecchi servi con quelli nuovi per andare avanti a fare propaganda di regime proprio come quelli di prima - riguarda ovviamente tutti i posti di potere nessuno escluso, non certo solo i giornali. Ma è una scenetta che è tornata alla memoria sfogliando un delizioso libro scritto da Antimo Cesaro, professore di Filosofia politica, ex deputato di Scelta civica e sottosegretario alla cultura dei governi Renzi e Gentiloni, dal titolo icastico e inequivocabile: “Breve trattato sul lecchino”. Un saggio astuto e raffinato che, circumnavigando tra Aristotele, Catullo, Gorgia, Machiavelli, Proust e Musil, delinea il profilo di uno dei tipi umani più eterni e diffusi in ogni comunità sociale. Una figura oggettivamente straordinaria che pervade la letteratura di tutti i tempi proprio perché del tutto universale. Il lecchino - o come preferite chiamarlo: l’adulatore, il servo, il ruffiano, il lacché, il cortigiano, il cicisbeo - è infatti totalmente trasversale. Ed è chimerico, cangiante, si fa concavo quando il potente è convesso e convesso quando il potente è concavo, è mammifero perché succhia le mammelle altrui, è ibrido ed anfibio come le sirene perché imprigiona il suo padrone cantandone le lodi, è un uccello perché fa la muta, è naturalmente un rettile perché è sinuoso e ipnotico e bla bla bla. Insomma, un vero topos letterario, un pesce pilota del potere che sugge da quello la sua linfa vitale e del quale il potere non riesce mai a fare davvero a meno.
Il lecchino è eterno perché ha capito qual è la vera debolezza di noi esseri umani: il bisogno di sentirci amati, adulati, vezzeggiati, confermati nelle nostre certezze, nel nostro disperato anelito a sentirci importanti e al contempo a poter decidere le sorti degli altri. Ne abbiamo bisogno. E più diciamo che non ci interessa, più ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno del nostro harem, della nostra “famiglia”, del nostro cerchio magico, delle nostre zarine, delle nostre Madame Pompadour, dei nostri consigliori, dei nostri Richelieu che a tutto pensano, a tutto provvedono, tutto blandiscono e su tutto accondiscendono, covando nel loro seno, tanto più livido e fanghiglioso quanto più mascherato da salivamenti e gran sorrisi, l’obiettivo di sedurre e circuire fino al punto di rendere al capo del tutto impossibile la vita senza di loro.
Ma è proprio questo che alla fine rovina il potente, il circondarsi di signorsì lo porta a staccarsi dalla realtà, perché è lì che c’è il dibattito, la contestazione, il conflitto, che invece il leccapiedi fa sparire dal suo orizzonte, ingioiellato solo di certezze, cose belle e magnifiche sorti e progressive. E di cui l’ormai celebre bacio della mano a Salvini (così come a tutti quelli prima di lui) in quel di Afragola è immagine emblematica di un’eternità che nessun cambiamento potrà mai cambiare. E che però deve metterci in guardia, perché se è vero che di zerbini è piena la storia del mondo e se nello straordinario “Discorso sulla servitù volontaria” Etienne de La Boétie ricordava di come l’uomo si abitui alle peggiori dittature invece di desiderare la libertà, quando il numero dei lecchini cresce in maniera rapida e geometrica e pervade tutti gli ambiti sociali, allora suona il campanello d’allarme per la democrazia. Secondo voi, oggi come siamo messi rispetto a ieri?
@DiegoMinonzio
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