L’uomo di nessuno
diventato di tutti

Un matto. In principio si presentò in tv dicendo di chiamarsi Kranz. Professor Kranz. Sosteneva di essere un prestigiatore e, col suo spiccatissimo accento tedesco, pretendeva gli si offrisse collaborazione: “Chi viene voi adesso?” Tutti i suoi trucchi finivano malissimo, spesso con atti di feroce autolesionismo. A sconvolgere gli spettatori di fine anni Sessanta era però il tono che questo sedicente “tedesco di Germania” teneva con il pubblico. Allora la televisione era tutta “cari amici vicini e lontani”, sorrisoni, farfallini, brillantina. Questo finto crucco, invece, era brutale: attaccava la gente, quasi la malmenava. Un matto, proprio.

Ricomparve poco dopo e stavolta aveva cambiato il nome in Giandomenico Fracchia. Di tutt’altra pasta: un impiegato molliccio e pavido. Spinto dai colleghi si ritrovava davanti allo stentoreo (e bravissimo) capufficio Gianni Agus per chiedere un aumento di stipendio. E mentre biascicava qualcosa sulle “fasce retributive”, ecco che piano piano con tutto il corpo scivolava dal pouf sul quale Agus l’aveva infine costretto a sedersi. Fracchia non brutalizzava nessuno: al contrario, era vittima di un sistema che perfino attraverso gli elementi d’arredo era concepito per farlo inciampare, metterlo al tappeto, umiliarlo. Un povero matto, ecco.

Infine, arrivò Fantozzi. Anzi, Fantozzi ragionier Ugo. Prima in un libro, poi al cinema. Da quel momento, un susseguirsi infinito di colpi di genio che hanno fatto la sua e la nostra storia: “Fantocci!”, “Questo me lo pappo io!”, “Per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, “Batti lei”, “Zoff di testa su calcio d’angolo”, “Alla fine la polizia s’incazzò davvero”, “L’occhio della madre”, “Tiro al piattello!”, “Rivadi contessa, ma più centrale”, “Menagramo di un menagramo”, “Faccio l’accento svedese?”, “Prendo la vecchia”, “Cazzi sennò s’incazza!” e qui ognuno è pregato di completare l’elenco a seconda delle sue personali preferenze.

Nei film irrompeva poi una voce tonante e grottescamente drammatica; sempre la sua, di Fantozzi, ma in versione deus ex machina, chiamata a sottolineare con crudeltà ogni inadeguatezza di quel borghese davvero (troppo) piccolo: “Abbigliamento Fantozzi: maglietta della Gil, mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillone da balia, grosso racchettone 1912, elegante visiera verde con la scritta Casinò municipale di Saint Vincent”. Un povero matto, e addirittura un martire.

Sì perché, libro dopo libro, film dopo film, crudeltà dopo crudeltà, Fantozzi si fece carico di tutte le nostre pietose vergogne, dei nostri “vorrei ma non posso”, delle nostre sfighe di esseri incompiuti. Per la nostra salvezza, ovvero per darci la libertà di ridere di lui anziché di piangere per noi, Fantozzi si presentò circondato da una pletora di personaggi, anzi di archetipi degni di un Omero in negativo: Filini, l’ometto petulante ed entusiasta incapace di scorgere la sua stessa ottusità attraverso gli occhiali spessi; il geometra Calboni (“puccettone!”), arrivista, servile, quasi bell’uomo, millantatore; la signorina Silvani, pronta a sfruttare due dita di (presunto) fascino per ottenere vantaggi anche finanziari.

Quante risate, quanta cattiveria. E che genio.

Un genio assoluto, incomparabile, capace di cogliere e imitare ciò che tutti vedono ma nessuno comprende, ciò che tutti conoscono ma non sanno sintetizzare e men che meno accettare.

Dopo Fantozzi, la commedia all’italiana, con le sue risate amare e le sue memorabili perfidie, apparve edulcorata: gli sconfitti di Monicelli, al confronto, mantenevano una loro dignità. Fantozzi no: lui subiva fino in fondo. Non conosceva riscatto, mai: solo un Megadirettore Galattico dopo l’altro, un Duca Conte dopo l’altro. Perfino nell’intimità della famiglia a lui, incapace di apprezzare la dolcezza remissiva della signora Pina, toccava infine di trovarsi faccia a faccia con la bruttezza scimmiesca della figlia Mariangela.

Un matto, un povero diavolo, un genio. E alla fine arrivò anche Paolo Villaggio, l’autore, l’attore, lo scrittore, l’intellettuale. Tutto affannato a spiegarci che lui non andava confuso con Fantozzi, che era ben altra cosa, ben altra persona. Disse di essere colto, intelligente, impegnato. Dimostrò di saper scrivere, di poter recitare i classici in teatro, di fare del buon cinema e di riuscire perfino ad associarsi a un colosso come Vittorio Gassman per ricreare, tacitamente e senza sforzo, la dinamica Don Chisciotte-Sancho Panza.

E davvero si provò straordinario ed eclettico, intelligente e visionario. Ma noi lo sapevamo già: chi aveva creato Fantozzi non poteva che essere un gigante. E perdipiù un taumaturgo, perché bruciando quell’idolo sfigato aveva riscattato noi da tante umiliazioni che, seppur inevitabili, non ci avevano ferito come avrebbero potuto. Bastava scrollare le spalle e definirle situazioni “fantozziane”, un aggettivo magico, un talismano, il suo dono più prezioso. E dunque buon viaggio, caro ragionier Ugo, personaggio che John Lennon aveva forse visto in un presagio: “L’uomo in nessun posto, seduto in nessun posto a far piani per nessun posto, per nessuno”. Buon viaggio, e rispettosamente ci saluti (congiuntivo esortativo) il Megadirettore Ultimo.

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