Ma Como non è più
una città per sportivi

Tra lago, colline e, sullo sfondo più prossimo, le montagne, Como sembra una palestra naturale. Perché lamentarsi allora se le palestre artificiali, quelle in cemento, vetro e parquet, non sono proprio le migliori del mondo, non rispondono ai più severi requisiti di efficienza e, per dirla tutta, fanno acqua non solo quando piove?

Forse proprio per sottolineare la contraddizione, il clamoroso paradosso. Como porta sul petto un’infinita teoria di medaglie sportive, è sede di società gloriose, ha dato i natali ad atleti celebri e tuttavia, quando c’è da garantire un tetto all’agonismo, ma anche alla semplice pratica di diporto, si rivela del tutto inadempiente. Vogliamo insistere sull’assurdità della situazione? Pensate in quante discipline di squadra la città ha saputo piazzare, nel passato più o meno recente, ai massimi livelli. Calcio, basket, hockey, pallanuoto. Queste le più facili da ricordare: lasciamo a voi il compito di colmare le lacune.

In risposta a tanto ardore sportivo, il panorama pubblico degli impianti sportivi è desolante. Leggerete oggi in cronaca una panoramica che, di per sé, potrebbe essere assimilata a una nuova disciplina olimpica: slalom tra gli orrori, potremmo chiamarla, o anche maratona del degrado. Non c’è una doccia presentabile, uno spogliatoio nel quale cambiarsi senza avere la sensazione di essere capitati in una prigione siberiana, un parquet sul quale non si sia svolto un saggio di danza per cingolati. Si dirà: gli impianti sportivi non sono diversi dal resto della città. Le ristrettezze finanziarie dell’amministrazione pubblica si misurano ovunque: sulle strade bombardate di buche, sui progetti avviati e insabbiati, sulle lampadine cieche e sui marciapiedi dissestati. Tutto vero, ma per quanto grave sia l’incuria che, come una muffa, copre distruttiva la città che appartiene a tutti, le lacune dello sport sono così uniformi, così profonde e così incrostate da alimentare il sospetto che Como abbia una antipatia storica per lo sport. Il che è talmente falso da fare rabbia e conferma la sensazione, spesso frustrante, che la città non sia in grado di mettere in ordine le sue priorità.

Lo spiega il sindaco, lo dicono gli amministratori: soldi non ce ne sono e la mancanza dei soldi non può fare altro che avviarci a una fase di politiche di piccolo cabotaggio e di conseguente navigazione in fondali bassi. E siccome non si possono pretendere miracoli politici e finanziari, la sconsolata registrazione delle magagne che costellano gli impianti sportivi comaschi finisce per essere fine a se stessa: necessaria al dovere di cronaca, doverosa come documento storico ma niente di più. Bisogna però prendere coscienza, come si diceva una volta nelle assemblee, che impianti carenti o disastrati significano una pratica sportiva limitata o impedita e che una pratica sportiva limitata o impedita comporta una serie di conseguenze sociali. Lo sport, è quasi superfluo ricordarlo, è educazione e cultura. Un tetto bucato e una doccia fredda non sono soltanto insulti al comfort e al decoro: finiscono per danneggiare valori fondanti e per soffocare le spinte più vitali e solidali di una comunità.

Per questa ragione ci si chiede se, ancora una volta, non debba essere il privato a venire in soccorso al Comune, ovvero se è possibile che ancora una volta la comunità si sostituisca in qualche modo a se stessa e risolva, almeno in minima parte, i problemi dello sport cittadino. Non facciamone una questione di carità o di regalie a fondo perduto: quello nello sport è spesso il più serio investimento nel futuro.

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