Mazzette al fisco
Ora il pm “studia”
gli imprenditori

L’inchiestaChi era consapevole della corruzione E chi invece ha rifiutato le offerte dello studio Pennestrì L’accordo per pilotare la Commissione tributaria

Chi aveva pendenze da sistemare e, pur di non pagare multe salate per gli accertamenti dell'Agenzia delle entrate, accettava il “metodo Pennestrì”. E chi invece, «non avendo mai fatto un centesimo di nero», non aveva nulla da temere e le profferte del commercialista di via Auguadri le rifiutava.

C’è anche un altro versante da esplorare nell’inchiesta che ha portato in carcere l’anziano professionista Antonio Pennestrì, il figlio Stefano e i due dipendenti del fisco, l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate Roberto Leoni e il funzionario Stefano La Verde, capo team dell’ufficio di viale Cavallotti.

È il côté degli imprenditori, ed è verso questi che guarda ora il pm Pasquale Addesso, titolare del fascicolo che ha terremotato un sistema che si poneva chiaramente al di fuori della legalità. Eventuali sviluppi dell’inchiesta arriveranno da questo fronte.

Passando in rassegna i profili che emergono dall'indagine, risulta che gli impresari si pongono tra questi due estremi. Da un lato vi è la figura di Andrea Butti, titolare della Tintoria Butti di via Pannilani, il solo imprenditore finora destinatario di una misura cautelare: è stato messo agli arresti domiciliari, accusato di essere il corruttore, per il tramite dello studio Pennestrì, dei due dipendenti pubblici.

Il patto corruttivo

Secondo la Procura, l’industriale è consapevole di quanto stava accadendo: nello studio di Pennestrì, si legge nelle richieste del pm, viene spiegato «molto chiaramente all'imprenditore Butti l’accordo corruttivo che i professionisti stanno cristallizzando con il funzionario dell’Agenzia delle entrate, La Verde Stefano». Gli viene rappresentato, infatti «che in sede di udienza (di fronte alla Commissione tributaria provinciale, dove si sarebbe discusso il caso del suo accertamento, ndr), le parti in causa si impegneranno, in ogni caso, al fine di far valere le ragioni su cui si basa il ricorso».

Illuminante è l’intercettazione del 7 marzo, registrata nello studio Pennestrì dai finanzieri del Gruppo tutela economica e finanziaria della Gdf di Como. Si sente La Verde dire: «Io vengo in udienza, io e chiaramente aiuterò». E poi ancora: «Per andare al sodo: ci sarò io in udienza, alla fine ho fatto in modo...». Stefano Pennestrì si complimenta con lui: «C., sei un figo». E lui ancora: «Quindi questo è un elemento buono». Il giorno successivo i due Pennestrì commentano la disponibilità mostrata da La Verde, e pensano a mettere in piedi una sorta di simulazione di quanto dovrà avvenire in udienza.

Nel loro gergo, è “il teatrino”. Stefano Pennestrì dice al padre: «È veramente un figo perché è riuscito a farsi dare la pratica e allora sarà lui la nostra controparte a discuterla in Commissione». Ancora Stefano: «Siamo rimasti che settimana ventura facciamo teatrino, io faccio finta di essere il giudice. Mettiamo la... e lo Stefano, e organizziamo la parlata, cosa non devi dire, cosa devi dire, cosa replica quell’altro».

Risposta lapidaria

Così il caso di Andrea Butti. All’estremo opposto la figura di un altro imprenditore comasco, Graziano Brenna che, avvisato da Antonio Pennestrì dell’imminente verifica dell’Agenzia delle entrate alla Comofil («così faccio bella figura», si era lasciato scappare il giorno prima in ufficio), gli risponde, lapidario: «Tieni conto che non facciamo un centesimo di nero». Quell’altro resta basito: «Ah c. , e ne sei orgoglioso anche? Lo dici così?». «No - replica Brenna - Per dire che mi sento tranquillo...».

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