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Martedì 14 Febbraio 2012
Petrus e Damioli
al Serrone di Monza
New York e Shangai, Venezia e Milano, Parigi, Berlino, Londra, Helsinki. E anche Monza. Il giro del mondo di Aldo Damioli e Marco Petrus inizia e finisce al Serrone della Villa reale per raccontare le città, nel loro carattere profondo o in un loro sguardo istantaneo.
Una città invisibile di Calvino come Zaira, il luogo che non racconta di sé per il sesto dei suoi archi o per lo zinco dei suoi tetti, perché sarebbe «come non dirti nulla». Quella città, come tutte le altre, è fatta «di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato»: è storia in sé, lungo la verticale di quanto rappresenta rispetto a quanto ha visto. Mattoni e cemento e vetro e ghisa fusa: una città è materia che racconta in ogni suo centimetro - diceva Georges Perec - soprattutto cos'è stata. è l'abito della sua storia.
Aldo Damioli e Marco Petrus raccontano la stessa storia, ma solo in apparenza. Raccontano città - Monza e New York, Mosca o Torino - e ne raccontano l'abito. Il primo per rarefazione dell'immaginario, per restituire in qualche metro quadro o anche meno un carattere, il secondo per raccontarne il ritmo, una sensazione, l'istante unico. Entrambi - e uno di loro di sicuro - direbbero di una città o di un suo dettaglio che sono musica. Le strade di Damioli e Petrus si incontrano ma hanno una sintassi differente.
Quello che vede l'autore delle “Venezia New York” è l'elemento diacronico - l'attraversamento del tempo - raccontato come in un istante che si è ripulito delle scorie del presente. La Villa reale di Damioli è la purificazione di mille Ville reali e di milioni di persone che l'hanno attraversata come simbolo di una città: quella Monza è una Monza fatta di calma almeno apparente e di incantanta assenza del disturbo costante che invece Milano imporrebbe, la strada, i clacson, il traffico, il suono dei cellulari e lo sferragliare di un tram dagli occhi gialli che attraversa una via fatta di nebbia anche con il sole allo zenit. Monza è al di là delle nuvole, dopo la cintura delle fabbriche. E allora la sua musica è forse un silenzio attonito, lo spartito delle forme neoclassiche della Villa reale, in una vista frontale, panoramica e immobile. Dentro, ci sono i secoli di una città che è stata per secoli il luogo di villeggiatura dei padroni d'Europa.
Lo sguardo di Petrus è sincronico - è l'istante, una sensazione, l'occhio che corre al cielo e incrocia nella fuga il momento perfetto. Quel momento è un'architettura urbana che racconta soprattutto se stessa e non la sua storia, per quanto in quell'istante, in quello sguardo, siano riconducibili le traiettorie di secoli. Petrus descrive un attimo: una convergenza di linee e forme e colori che sono l'istantanea di un'esperienza.
Gli anni Trenta di via Passerini che si guardano dal civico cinque al civico sette mentre attorno, magari, balla l'Ottocento. Ma sono un pretesto - avverte lo stesso artista - e lo denuncia trasfigurando il cielo in una macchia arancione: a lui non interessano il prima e il dopo, importa soltanto quel secondo dell'esperienza sensoriale in cui l'occhio ha visto una melodia attraversare lo spazio. Una cadenza ritmica di curve e colori e ombre che sono, e sono soltanto, forma.
«L'apparenza inganna» scrive Elena Pontiggia nel testo critico che accompagna il catalogo perché la tentazione - il peccato originale - è esattamente quello di andare alla ricerca del riconoscibile, del racconto diretto, proprio dove la nuova figurazione italiana (di cui sia Damioli sia Petrus sono protagonisti) percorre le strade della sublimazione dell'immagine. E che tanto più rappresenta, altrettanto cerca una via di fuga dalla realtà che descrive.
Lo fanno, i due artisti della mostra al Serrone di Monza, in modo sistematicamente opposto. Le città di Damioli sono apparentemente sentimentali e impulsive (la sua Parigi ha un cuore che batte come Milano dispiega le sue nebbie, Torino ha un cupo metallo nobile e industriale come New York il suo essere tutto, enormemente tutto e niente) quanto più sono il risultato di un'eleborazione prima di tutto cerebrale. E tanto più descrittive, quelle visioni, quanto più il risultato di una speculazione colta declinata dal singolo immaginario urbano e sociale. Le città di Petrus sono, nel percorso opposto, tanto apparentemente logiche, neutre, matematiche quanto rappresentano il risultato di una singola, immediata, irripetibile impressione del presente. Come per Edward Hopper, racconta lui: non è un uomo allo zinco di un bar di notte che esplode in una luce mentre il cameriere si china sotto il bancone, è il momento perfetto in cui le linee e i colori sono diventati qualcosa che non descrivono altro se non quelle linee e quei colori. Ma un quadro, una tela, sono un risultato sintetico. Ed è una sintesi estetica, perché pur sempre di arte si tratta e non di filosofia.
E allora un suono. Perché - con Damioli - un quadro «o canta o non canta», ha un'idea e la sa trasmettere ai sensi oppure no. Damioli e Petrus, nella mostra “La città della pittura” lo fanno una cinquantina di volte, quante sono le opere esposte in una delle più importanti mostre realizzate a Monza nell'ultimo decennio, capace di far dialogare al Serrone due artisti tanto prossimi - figurativi, milanesi - quanto distanti nel percorso artistico: vicini di casa dell'argomento, estranei nel linguaggio al di là delle apparenze. Ma appunto, è musica. Come la Manhattan di Woody Allen, che può essere tante cose come chi la racconta, ma alla fine era «la sua città e lo sarebbe sempre stata». Esplodendo poi di fuochi d'artificio, il crescendo della Rapsodia in blu di George Gershwin.
Massimiliano Rossin
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