Paghiamo sempre più tasse, ma i Comuni hanno sempre meno risorse da spendere. Sì, il plurale è una scelta perché lo stato in cui si trova il Comune di Como è tal e quale a quello di quasi tutti gli altri Comuni italiani. E le critiche legittimamente riservate nell’ultimo mese a Mario Lucini sono curiosamente le stesse che, due anni fa, si è trovato a fronteggiare il primo cittadino leghista di Varese, Attilio Fontana.
Il parallelismo aiuta a comprendere che, al di là di un certo tasso di strumentalità che sempre accompagna il dibattito politico, i sindaci sono tutti alle prese con gli stessi problemi. Da una parte c’è la necessità di garantire i servizi primari ai meno abbienti (sempre di più negli ultimi anni a causa della crisi) e dall’altra quella di ovviare a casse sempre più vuote (anche qui a causa della crisi ma anche per via del drastico calo dei trasferimenti dallo Stato). La soluzione – ma non è tale – è quella di spremere sempre di più i cittadini che pagano sempre più tasse e nonostante ciò le risorse dei Comuni sono sempre più esigue. Complimenti a chi ha inventato il federalismo fiscale. Quest’ultimo era stato venduto come il meccanismo virtuoso per trattenere a livello locale buona parte del prelievo e al contrario si è rivelato il sistema più rapido per raddoppiare la pressione sulle tasche dei cittadini.
Si accusa di frequente i sindaci di scarsa propensione alla riduzione della spesa. Si tratta di un argomento che pone un problema concreto ed è opinione diffusa che nei Comuni vi siano sacche di inefficienza inaccettabile. Probabilmente c’è molto da fare su questo fronte ma non è ragionevole pensare che i sindaci possano agire con la facoltà di azione di un manager. Non solo, le forbici sono strumento efficace ma bisogna poterle utilizzare davvero. Prendiamo il caso della refezione scolastica e dei nidi comunali. È ragionevole aspettarsi che a Como su entrambi i fronti vi sia una riduzione della spesa nell’arco dei prossimi anni. In parte è stato fatto (azzerare le liste d’attesa significa aumentare l’efficienza del servizio), ma la possibilità di accorpare le strutture per abbattere i costi di gestione è una strada impercorribile perché necessiterebbe di investimenti che il Comune non è in grado di sostenere o non può sostenere per effetto dei vincoli del patto di stabilità.
“Abbiamo il dovere di affrontare il bilancio con la consapevolezza che c’è differenza tra quello che ci piacerebbe fare e quello che le varie circostanze ci impongono di fare” ha ammesso con amarezza Lucini.
Il dibattito, attualissimo, sull’esternalizzazione di alcuni servizi andrebbe posto, innanzi tutto in consiglio comunale, su binari concreti. Se ci si limita al confronto sui massimi sistemi non andremo lontani. E converrebbe anche al centrodestra, che è opposizione oggi ma deve coltivare l’ambizione di tornare al governo tra qualche anno, evitare che il confronto scivoli sul terreno della semplificazione estrema, in una parola della demagogia. Un dato solo che rende quanto il Comune di Como, cioè tutti noi, si è impoverito nell’arco di 15 anni. Nel 1999 nel bilancio di previsione c’erano risorse in conto capitale, cioè investimenti principalmente in opere pubbliche, per 100 miliardi di lire. Ora ci sono 20 milioni di euro ma, per effetto del patto di stabilità, se ne possono spendere solo sette. Forse, la sola consolazione, è che abbiamo davvero toccato il fondo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA