Giuliano Poletti è proprio un tipo sfortunato. Una volta tanto che ne dice una giusta lo prendono tutti a gatti morti in faccia.
Il ministro fisicamente, antropologicamente e dialetticamente più distante dall’etica e dall’estetica renziana - lui così paffuto, così bonaccione, così ballonzolante nella sua finta bonomia emiliana al punto da rappresentare quasi un affronto lombrosiano al profilo dell’uomo nuovo fiorentino – ha osato proferire agli studenti di Verona, durante un convegno sul welfare, una verità limpida e crudele. È inutile laurearsi con il massimo dei voti a ventotto anni, i nostri giorni sono tempestosi, gli scenari indecifrabili, il tempo rapido come mai prima d’ora e quindi è molto meglio una laurea con un voto più basso a ventuno che una con la lode quando ormai ci si avvicina ai trenta.
Apriti cielo. E cafone e presuntuoso e arrogante e pensa per te che il problema della laurea lo hai risolto da giovane e infatti hai solo il diploma e sei peggio di quella vecchia ciabatta della Fornero e dei suoi “choosy” e sei peggio di quella buonanima di Padoa Schioppa e dei suoi bamboccioni e sei il solito sopracciò della politica politicata politicante che fa la morale a tutti con il ditino alzato senza sapere quello che dice e spurgo della casta dei mantenuti, dei leccapiedi e degli affamatori del popolo e tutto il resto del cascame della peggio retorica giovanilistica che ingorga il meraviglioso mondo dei social in una stupefacente rivisitazione della “Samarcanda” di Santoro vent’anni dopo. E noi giovani siamo così e noi giovani siamo cosà e a noi giovani non pensa nessuno e ci hanno traditi e ci hanno usati e ci hanno abbandonati e lo Stato dov’è e lo Stato non c’è e lo Stato cos’è. Una brodaglia talmente vecchia e stravecchia e stracotta da far sembrare alcuni dei nostri ventenni arrabbiati più bolsi e forforosi di certi tromboni del circolo dei monarchici e dei reduci di Porta Pia. Passaggio di consegne.
Ma questa è tutta fuffa, perché il ministro l’analisi - così come quella sull’abolizione dell’orario di lavoro - l’ha azzeccata per davvero. In un mondo folle e ipercompetitivo nel quale gli indirizzi e le strategie cambiano nel giro di pochi mesi, concedere quattro, cinque o addirittura sei anni di tempo a un laureato anglosassone che già a ventidue anni ha concluso il suo corso di formazione superiore, può diventare uno iato insuperabile, mortale. Pensate solo a cos’era il mercato digitale un lustro fa e cos’è adesso e vi renderete conto che siamo di fronte a una rivoluzione destinata a far impallidire tutte quelle precedenti. E che sia un dato positivo o negativo è del tutto secondario: questa è la realtà effettuale con la quale dobbiamo convivere, che ci piaccia o no.
Dove invece Poletti sbaglia di grosso è sulle cause. A suo avviso - e qui la faccenda diventa veramente spassosa - i nostri giovani si laureano tardi per un eccesso di perfezionismo che li porterebbe a non accontentarsi di un voto medio-basso e quindi a impiegare più tempo per raggiungere il massimo dei risultati. Lenti perché troppo orgogliosi. E infatti già li vediamo tutti questi Anassagora, questi Anassimandro e questi Anassimene e le loro sudate carte e i loro studi matti e disperatissimi e questa tenacia, questa volontà ferrea, feroce, asburgica, teutonica, calvinista che gli impedisce di accontentarsi, di dire ma sì, che va bene lo stesso, di fare gli italiani, i pressappochisti, gli sciattoni e quindi prova che ti riprova fino a quando - costi quel che costi - l’ennesimo trenta e lode non è andato a stampigliarsi sul libretto universitario. È così. Tutto vero. Il nostro ministro del lavoro la pensa veramente in questo modo. E poi dicono che uno si butta sui Cinque Stelle…
Ma l’altro errore ancora più marchiano è ritenere che il problema sia figlio dei nostri tempi e che questa generazione sia priva del nerbo necessario mentre una volta - caro lei - non c’era tempo per chiacchiere e distintivi. E questa sì che è una vera stupidata. I bamboccioni - basti ricordare lo strepitoso personaggio dello zio del giovane Fellini in “Amarcord” - sono una costante della commedia umana, ben prima del geniale neologismo coniato dall’ex ministro dell’Economia. E hanno allignato e prosperato e prolificato senza requie, infettando licei classici del centro e atenei titolati negli anni Settanta, che a ricordarsi certi liderini studenteschi che organizzavano la rivoluzione proletaria al tavolo del biliardo con la Porsche pagata dal papà parcheggiata in tripla fila, certi trotskisti da “Ecce bombo” con l’uzzolo del teatro e delle maschere Kabuki e la terza casa a Sils Maria, certi ideologi delle contraddizioni del sistema e dell’inevitabile collasso delle multinazionali, viene ancora voglia di andar giù di badile. E mica è finita qui. Perché pure nei rutilanti anni Ottanta c’erano i figli della serva che sgobbavano e saltabeccavano e piroettavano da un lavoretto all’altro per non pesare sulla famiglia e comprarsi la Uno base a rate, mentre le mandrie dei figli pluriripetenti dei soliti noti sfrecciavano con il rosso e sorpassavano a destra nella Milano da bere, come ricordato in un immortale corsivo nel quale un giovane e, a quei tempi, talentuosissimo Michele Serra si domandava per quale misteriosa ragione tutti i cretini viaggiassero a bordo di una Golf nera Gti.
I lazzaroni, i cialtroni, i fanfaroni che si laureano al dodicesimo anno - allora in scienze politiche, adesso in scienze della comunicazione - ci sono sempre stati, ci sono e ci saranno sempre. E hanno ragione loro, perché di solito sono figli di un’economia e di un familismo protetto tutto nostro, tutto italiano, tutto amorale e relazionale, che divide la società non tra quelli capaci e quelli no, ma tra quelli che sanno stare al mondo e quelli che non contano una mazza. Altro che merito, lauree sprint e sfide del mercato globale. È su questo schifo che dovrebbero ragionare il ministro Poletti e il suo governo di fuoricorso.
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