Un paio di giorni fa, in un programma di intrattenimento di metà mattina - quelli che non guarda nessuno - è riapparso, dopo anni di oblio, l’ex presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota.
È proprio vero che i politici della Seconda Repubblica sono tutti afflitti dallo stesso male endemico: la volatilità. Appaiono all’improvviso, spuntati come funghi dopo una pioggia dannunziana, sfolgorano nell’olimpo della nostra politichetta di serie C per un paio di stagioni e in quel mentre non c’è verso di non beccarseli almeno tre volte al giorno, visto che occupano militarmente tiggì, talk show seriali, approfondimenti e interviste e comparsate e presentazioni di libri e piazzate e scamiciate al fianco del lider maximo di turno fino all’apice della carriera che, generalmente, coincide con un posto in Parlamento o uno in Regione. Poi, tutto di un tratto, scompaiono. Voi penserete subito a Renzi. Eppure sono dozzine - di livello alto, medio e basso - quelli che fanno la stessa fine. E quindi uno sarebbe indotto a bollare con un bel chissenefrega il ritorno in video di carneade Cota.
E invece la cosa, ai pochi a cui sarà capitato di seguirla, ha avuto un risvolto toccante, un dettaglio pedagogico, gravido di significati. L’ex governatore, per quanto ancora giovane - non tocca neppure i cinquanta -, è un uomo spossato, consunto, invecchiato di almeno dieci anni rispetto ai tempi d’oro, che risalgono a nemmeno un lustro fa. Un uomo vinto, sconfitto, svuotato. E il racconto che ha fatto in video della fine traumatica della sua carriera, che coincide con l’annullamento delle elezioni regionali da parte del Tar e, soprattutto, con il coinvolgimento nell’inchiesta cosiddetta di Rimborsopoli, nella quale gli venivano contestati venticinquemila euro di spese personali (massì, le famose mutande verdi…) pagate con i soldi dei contribuenti, è una cosa che lascia scossi. Davvero. Un massacro giudiziario e mediatico che lo ha espulso della politica, condannandolo al cerchio degli impresentabili, dei cialtroni, degli straccioni, dei ladri di polli, dei traffichini, dei poveracci. Fino alla sentenza del processo con rito immediato nello scorso ottobre. Assolto. Assolto perché il fatto non sussiste.
Ora, questa è una storia come tante e ne riassume mille. E che torna in mente e fa anche un po’ sorridere dopo aver sentito il presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, usare parole di fuoco durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario contro quei pubblici ministeri che portano avanti indagini “già di per sé troppo lunghe”, le “distorsioni del processo mediatico”, la “spiccata autoreferenzialità” di certi magistrati e, soprattutto, il “fenomeno della fuga di notizie, che rischia di ledere il principio costituzionale di non colpevolezza”.
Ma, in fondo, non è neppure il caso di prendersela con i magistrati, con alcuni, non certo con tutti. Il problema vero, il vero scandalo, riguarda invece due altre categorie, che sono le responsabili del degrado sudamericano nel quale è immerso il nostro paese dei datteri: la politica e il giornalismo. Quelli sono i morbi che hanno creato il vuoto di potere nel quale è entrata la magistratura, che ormai tutto decide, tutto codifica e tutto sanziona. La pochezza della politica, la sua cecità, il suo nanismo culturale e antropologico ha consegnato, a partire dalla mefitica stagione di Tangentopoli, le chiavi della gestione pubblica a un istituto altro, consegnandosi ad esso mani e piedi. La sacrosanta azione penale contro lo schifo, il marcio e la fogna della Prima Repubblica – che in quegli anni aveva toccato livelli intollerabili, ma, ecco il vero paradosso, comunque minori di quelli di oggi – è diventata la scorciatoia per fare piazza pulita dei partiti storici per via giudiziaria. Lì dove avrebbe dovuto sbocciare un nuovo progetto, nuovi leader, veri statisti, si è invece accovacciata una parte del vecchio sistema - uscita curiosamente quasi indenne dalla rivoluzione giustizialista – che, non avendo culture e strategie vere e profonde con le quali affrontare gli anni Novanta ma numerosissima rappresentanza nelle redazioni, si è limitata a godere degli arresti e delle dissoluzioni altrui e a inginocchiarsi alla retorica sui pm, al moralismo dell’onestà, al doppio moralismo della questione morale, all’arroganza razzista della superiorità antropologica.
E da lì non si è più usciti. È sufficiente quello per prendersi il potere, delegando tutto ai magistrati e lisciando il pelo a un sistema della comunicazione che vede nel killeraggio giudiziario la via di selezione delle élite e nel quale l’avviso di garanzia si è trasformato da strumento di tutela e trasparenza a ghigliottina lubrificata dalle tricoteuse dell’informazione sdraiata sotto le suole dei nuovi padroni del vapore. Quante ne abbiamo viste di queste porcherie? Quanti indagati sbattuti in prima pagina per un lunare abuso di ufficio o per misteriose questioni di opportunità e poi prosciolti o assolti anni dopo, con relativa notizia di dieci righe a pagina sessantadue? E quanti chilometri di intercettazioni del tutto private, del tutto improprie, del tutto fuori contesto abbiamo dovuto sorbirci senza che esistesse un minimo di criterio deontologico e di rispetto delle persone coinvolte? Siamo tutti salmerie al traino del carro. E che lo spinning ghigliottinario, che ignora il concetto dell’autonomia della politica rispetto al resto – non l’impunità, l’autonomia – pervada da capo a piedi anche un fenomeno nuovissimo e interessante come i Cinque Stelle è una cosa davvero drammatica, visto che questa retorica infantile ne preclude qualsiasi visione strategica e lo espone a figuracce barbine come quelle di questi penosissimi mesi romani.
Roberto Cota potrà essere stato un genio, un mediocre o un somaro. Non è questo il punto. Il punto è che non doveva e non poteva essere eliminato e umiliato in quel modo. Politica e media sono all’anno zero della loro credibilità: che si ravvedano in fretta, prima che la natura faccia il suo corso.
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