“Dammi una lametta che mi taglio le vene”, cantava Rettore che non voleva essere chiamata Donatella. E che lamettone affilato da harakiri ha tirato fuori Luigi Zanda, neo tesoriere del Pd zingarettizzato, con la proposta di aumentare gli stipendi degli onorevoli italiani per adeguarli a quelli dei parlamentari europei, che sarebbero più alti, addirittura di 5mila euro. Un atto di autolesionismo simile a quello di Massimo Boldi che in un filmaccio in cui interpreta un tifoso milanista, finisce nel covo dei supporter della Roma proprio prima della partita tra giallorossi e rossoneri ed è fatto a brandelli.
Anche di Zanda sembra restare ben poco dopo l’incauta uscita, quantomeno fuori tempo, vista l’epoca di vacche scheletriche che stanno vivendo gli italiani e con il populismo montante al governo e tra la gente. Persino il suo partito lo ha isolato come fosse un lebbroso. Ma ormai la frittata era bell’è cotta sul fuoco e a poco è servita la pletora di distinguo tra i quali addirittura che gli emolumenti di Strasburgo sarebbero inferiori a quelli romano.
Ma la questione di fondo è un’altra. Gli uomini e le donne seduti sugli scranni di palazzo Madama e Montecitorio meritano un aumento di stipendio? Se ci bandisse un referendum solo loro, e magari non tutti, voterebbero sì. Del resto le attuali paghette di deputati e senatori arrivano fino a 14mila euro. Per carità, ci sono tante spese, comprese quelle di viaggio e mantenimento nella capitale, quelle per i portaborse e il contributo da versare al partito. Ma ci si può campare più in maniera più che dignitosa. Del resto, se un rappresentante del popolo non riuscisse ad amministrare queste prebende, di gran lunga superiori a quelli della maggior parte di coloro che lo hanno eletto, come si potrebbe pensare di affidargli la gestione dei quattrini pubblici, cioè nostri? Perciò dovrebbe tornarsene a casa e al suo lavoro, ammesso che ne abbia uno, dove magari la pagnotta va guadagnata anche dimostrando efficienza. Qualità che rappresenta un requisito volontario per gli esponenti del Parlamento nostrano. Se poi nell’assemblea dove si decidono le sorti dell’Europa si guadagna di più, pazienza. Anzi male. Perché tutti sanno che da quelle parti sono tollerate assenze quasi vicini a percentuali di tre cifre.
Insomma un modo corretto di impostare la questione degli onorevoli stipendi, senza esporsi a questi voli senza rete, potrebbe essere quella di legarla al rendimento dei beneficiari. In termini di proposte di legge, di contributi al dibattito e anche di rapporto con i territori e le popolazioni che hanno scelto di essere rappresentati da loro. Questo è un punto dolente, specie dalle nostri parti dove ci si è trovati spesso (e anche nelle ultime elezioni politiche) di fronte a plotoni di paracadutati senza nessun legame con la realtà locale che, dopo qualche comparsata in campagna elettorale, hanno applicato il motto del “passata la festa, gabbato lo Santo” e per trovarli bisogna forse affidarsi a “chi l’ha visto”. Per non tirarla in lungo, oltre ai compensi dei parlamentari, occorrerebbe ritarare anche le loro funzioni. Peraltro con la fine dei partiti e delle loro forme tradizionali, il meccanismo di selezione dei candidati è cambiato e non in meglio. Chi arrivava in Parlamento 30 anni fa era stato rodato con lunghi periodi di gavetta, costretto a imparare i rudimenti dell’attività politica e fare pratica nelle istituzioni locali prima di salire sull’aereo per Roma. Insomma, il lauto stipendio se l’era in qualche modo guadagnato. Adesso manca poco che uno strapuntino in Parlamento non si trovi nei sacchetti di patatine. Perciò, altro che aumentare gli stipendi, prima si pensi a migliorare la qualità del ceto politico.
@angelini_f
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