Agli inizi della carriera giornalistica, uno dei momenti più inconfessabili, più istintivi e, allo stesso tempo, più crudeli era osservare i colleghi di lungo corso. E giudicarli nella loro abissale differenza da te. Differenza di età, naturalmente. Ma anche di posa, di linguaggio, di vestiario, di abitudini.
E, infiammato dall’arroganza dei tuoi vent’anni, era quasi sempre un massacro: quello che in riunione ripeteva ogni giorno le stesse cose, quello che lorsignori devono portarci rispetto, quello che a lui lo aveva rovinato la guerra, quell’altro che lui sì che la sapeva lunga perché ormai erano trent’anni di questo porco mestiere e non aveva mai fatto carriera solo perché non guardava in faccia a nessuno e, soprattutto, quello che si aggirava per i corridoi con un foglio in mano per far vedere che aveva sempre qualcosa di fondamentale da fare. E poi, il poeta che se non scovava una metafora anche nel consiglio comunale di Lurago Marinone si sentiva un fallito, il filosofo che tutto passa in questa folle professione, il bohèmien nostalgico dei bei tempi andati quando si consumavano le suole delle scarpe a caccia di notizie e caffè e sigarette e vita spericolata e giorni interi fuori dalla Procura e nottate insonni pestando sui tasti della Lettera 32… E noi, noi giovani praticanti, tutti a ridere di questi mammut, di questi dinosauri, di questi zombie da commedia dell’arte che ben presto avremmo scalzato dalle loro poltrone e ai quali mai e poi mai saremmo assomigliati.
Poi però la ruota gira, il tempo vola – un battito di ciglia e la vita è già passata – e ti fa capire (in ritardo) quanti colleghi bravi, capaci ed esemplari ti hanno insegnato tutto e così, all’improvviso, ti trovi sulla soglia dei cinquanta con l’inquietante sensazione di essere osservato a vista e anche se vent’anni fa le redazioni erano piene di giovani mentre oggi assomigliano a delle dependance di Villa Serena ti sembra sempre che in qualche anfratto si annidi un gruppetto di ragazzi che ride di te. E questo è il vero problema. Non che ti odi, che in fondo è quasi una medaglia al valore – non c’è sentimento più forte e più vicino all’amore dell’odio - ma che rida di te, sghignazzi, ti compatisca, di giudichi ridicolo, patetico, grottesco e vanaglorioso con le tue stelle e stellette. E sapete perché? Perché sei diventato esattamente come quelli che hai sbertucciato per tutta la vita.
La riflessione apparirà un po’ sciocca, ma forse non lo è. Ed è ispirata da un sondaggio condotto in Inghilterra e pubblicato sulla Stampa secondo il quale c’è un passaggio chiave nell’esistenza in cui il figlio inizia ad assomigliare al padre. Ora, non importa tanto che l’età cruciale sia stata individuata nel trentottesimo anno, quanto invece che in quel momento topico, in quel momento decisivo, si inizino a perdere molte inibizioni e a imbozzolarsi dentro alcune fisse tipiche di chi ha svoltato la propria esistenza, ne ha abbandonato la fase più creativa per cercare invece rifugio in alcune piccole, patetiche certezze, microscopici bunker che difendano dall’ira e dalla malvagità del mondo. Avere la propria poltrona in esclusiva in salotto, ad esempio, addormentarsi davanti alla tv, pensare che la musica moderna sia tutta uguale, raccontare barzellette che nessuno trova divertenti (e se si hanno ruoli di comando osservare invece con un filo di angoscia quanto gli altri fingano di ridere), passare molto tempo a fare lavori manuali in giardino e nel garage o perdersi nei propri pensieri fissando con lo sguardo un po’ ottuso i cumulonembi a incudine che scorrono nel cielo. Oppure, aggiungendo una nota personale a questa lista degli orrori, rivedere nella notte per la quarantasettesima volta “Il cacciatore” senza tollerare il minimo rumore o fastidio nel raggio di venti metri. D’altronde, i figli iniziano a essere autonomi, le mogli frequentano più le amiche che i mariti e il rapporto tra loro tiene soprattutto grazie a una forte dose di ironia (domanda di lei: “Amore, quest’anno vorrei andare in vacanza in un posto dove non sono mai stata…”, risposta di lui: “E perché non provi ad andare in cucina?”), il lavoro, se non l’hai perso, è quello che è, e quindi il maggior tempo a disposizione senza l’assillo di dover badare sempre a qualcuno ti porta a riconquistare quote di libertà e di sacrosanta voglia di farti finalmente gli affaracci tuoi.
Insomma, vengono a galla tutte quelle strambe occupazioni che da ragazzi abbiamo visto fare ai nostri padri e che abbiamo sempre giudicato con un filo di disprezzo sarcastico, perché noi eravamo un’altra cosa e lo saremmo stati per tutta la vita. E quello che pensavamo del padre era tutto sommato lo stesso di quello che ci saltava in testa osservando il capoufficio o, nel nostro caso, il caporedattore centrale o addirittura, nel più raffazzonato timore fantozziano, il direttore. Ragazzi. Cuccioli allo stato nascente. Bambini del mestiere. Ma che entusiasmo, però. E che voglia di fare, che slancio, che vitalità, quante strade aperte e che voglia di percorrerle tutte, di essere protagonisti, di lasciare un segno, di correre e trottare e galoppare mille miglia lontano dal branco, e che ambizioni, spesso mal riposte e poco supportate da valori effettivi, ma qualche volta no e senza mai pensare agli orari, ai bonus, ai carichi di lavoro, ai birignao burocratici e sindacali e a tutto il resto di quel pattume che costituisce da sempre la morte nera di qualsiasi professione. C’era un tale che una volta ha detto che dove c’è gratuità, lì c’è Grazia. Beh, aveva ragione.È quella la fase più bella e indimenticabile, al confronto della quale anche diventare il direttore del più importante giornale dell’universo è un’emozione da poco.
Con quelle risate, novelli Karamazov, avevamo ucciso il padre. Molti anni dopo, però, di fronte a una pagina bianca, ci saremmo ricordati di quel remoto pomeriggio in cui il nostro primo caposervizio ci aveva insegnato a riconoscere una notizia.
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