Quando Matteo Salvini nell’ormai mitologico pronunciamento dell’8 agosto - “Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare!” - avviò la crisi di governo parafrasando, a sua insaputa, Totò e Peppino alle prese con il ghisa milanese - “Noi vorremmo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?” - i più accorti di noi hanno intuito che anche questa stagione politica si accingeva a trascolorare rapidamente nel grottesco.
Non c’è niente da fare. Siamo fatti così. Destra o sinistra o tecnici o postideologici pari sono. Tutti quanti insieme - noi italiani baffo nero mandolino fanfaroni familisti amorali albertosordi - non riusciamo mai a reggere il registro del drammatico. Figurarsi quello del tragico. Perché poi, per motivi all’apparenza misteriosi e che invece attingono alle nostre profondissime radici storiche e culturali - un paese che non ha vissuto la rivoluzione francese né quella protestante, che da tutti è stato invaso e che con tutti si è dovuto mettere d’accordo, che non ha mai finito una guerra con lo stesso alleato con il quale l’aveva iniziata e bla bla bla - ogni grande evento e ogni comandante in campo diventa inesorabilmente parte integrante della pochade, dell’opera buffa, dell’avanspettacolo. La nostra politica interpreta una sceneggiatura scritta da Fellini, questa è la verità.
Lo schema è sempre quello, soprattutto da un trentennio a questa parte, da quando è tramontata la stagione delle ideologie, del fattore K e dell’appartenenza alle due Chiese contrarie e opposte del dopoguerra per dar vita, purtroppo, non certo a una società libera e liberale, ma al gran casino del mi faccio gli affaracci miei. A un certo momento spunta un tale, abile, astuto e spregiudicato quanto basta, che intuisce cosa gorgoglia nel ventre molle della nazione, cosa rumina nella panza del generone italiota, annusa con grande intuito dove spira il vento della storia e, all’improvviso, da niente diventa tutto, da ambizioso figurante si trasforma nel re di denari, nell’anima della festa, nel salvatore della patria. E sale e cresce e monta e ingrassa come un tacchino e si gonfia come un rospo e inizia a piacere alla gente che piace, oppure a quella che non piace, e prende voti e vince elezioni e si ritrova incredibilmente nel palazzo del potere, nella stanza dei bottoni, passando in men che non si dica dai comizi nelle piazze del paese e dai convegni forforosi nel salone parrocchiale ai vertici internazionali e stringe mani e vede gente e fa cose e le tv se lo contendono e i giornali ne titolano e i social lo quotano e tutto il resto del caravanserraglio del circo mediatico.
E così - inesorabilmente - alla fine l’asso pigliatutto compie l’errore fatale che ne determinerà, anche a distanza di anni, la rovinosa caduta: inizia a prendersi sul serio. Parla in terza persona, manco fosse Maradona, si atteggia, dà la linea, non ascolta più nessuno, soprattutto quelli che gli dicono di no, si circonda di una pletora sempre più untuosa e sussiegosa e salivosa di servi, leccapiedi, portaborse, madame de Pompadour e, da vero Unto del Signore, dichiara, annuncia, divulga, tracima, tuitta, facebucca, instagramma. E che piglio, che tono, che occhi di bragia. E lui che fa e lui che disfa e lui che ordina imperioso e lui che cerca spazi vitali e lui che difende la patria sul bagnasciuga e lui che manda a quel paese questo e quello e lui che decide le sorti del pianeta e lui che cavalca la tigre e lui che passa da una comparsata televisiva a un’altra, inseguito da giornalisti tutti di un pezzo a caccia di strapuntini, bonus e promozioni.
È a quel punto, la storia insegna, che uno la fa fuori dal vaso: Di Maio che annuncia dal balcone la fine della povertà, Renzi che proclama che se perde il referendum si ritira dalla politica, Berlusconi che nel bel mezzo della recessione dice che i ristoranti sono pieni, Craxi che le toghe rosse hanno creato un clima infame, per non parlare di Bossi, Fini e compagnia cantante. A quel punto, e solo a quel punto, si crea un attimo di silenzio, un silenzio ancestrale, un silenzio assordante, un silenzio di neve. Poi, puntuale come la morte, parte la prima omerica, grandguignolesca, sganasciante risata. E allora sì che la frittata è fatta. Da lì in poi non recuperi più. Ma non nel senso che sparisci di scena, Berlusconi ad esempio è ancora in gioco, per quanto ai margini, e puoi addirittura vincere le elezioni successive, come è possibile che accada benissimo al leader leghista, vista la sua sagacia nel corpo a corpo e l’Armata Brancaleone che sta per sbarcare al governo. Nel senso che il tuo momento magico è passato. Da aquila reale degradi a spennacchiato alerione. La tua aura di invincibilità, di perfezione, di sacralità si è dissolta e con lei la pletora di questuanti che ti hanno circondato per mesi, se non per anni.
Solo per inciso, pensate ai momenti tragici che si stanno vivendo in Rai. Specchiati professionisti - saliti al galoppo sul carro della nuova televisione sovranista che dà finalmente voce al popolo portando in studio le facce della gente comune e tutto il resto delle fregnacce con le quali ce le hanno fatte a dadini in questi mesi – alla disperata ricerca, ora che il capitano è uscito di scena, di un riposizionamento a tempo di record in vista dell’arrivo dei nuovi padroni giallorossi. Direttori che tritano felpe, caporedattori che cancellano salvaschermo con il capitano in costume da bagno, responsabili di settore che sbianchettano selfie ricordo al Papeete, inviati speciali che loro sono zingarettiani da tempi non sospetti e, soprattutto, capataz di TeleVisegrad che scandiscono all’unisono: “Salvini chi???”.
La ruota gira, il circo rimonta il suo tendone, il pubblico attende con ansia il nuovo uomo del destino, ansioso di idolatrarlo per un po’ e di attaccarlo per i piedi a un post di Facebook quando gli sarà venuto a noia. Fossimo in Conte, inizieremmo a guardarci alle spalle.
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