Si torna a parlare di accorpare le regioni. Proposte in tal senso sono state già state depositate in parlamento, suscitando discussioni sui confini dell’Appenninia o del Levante. Negli scorsi giorni, poi, il presidente della regione Lazio, Zingaretti, ha formulato una sua ipotesi in tema e l’ha giustificata con l’esigenza di ridurre talune spese mettendo in comune questo o quel servizio.
Di primo acchito la cosa può apparire anche ragionevole, dato che le regioni sono state una copia sbiadita dell’amministrazione centrale anche nella loro facilità a sprecare. Se lo Stato centrale non ha paragoni in quanto a inefficienze, le regioni hanno saputo in vari casi mettersi nella sua scia.
Non convince, però, la prospettiva adottata. Quanti propongono la fusione tra Piemonte e Liguria, o tra Puglia e Basilicata, restano prigionieri di una logica che vuole che la maggior parte delle entrate fiscali siano incassate da Roma e poi distribuite nel territorio. Questa “finanza derivata”, però, deresponsabilizza le classi politiche locali, che invece dovrebbero chiedere direttamente ai cittadini le risorse di cui hanno bisogno per i servizi che forniscono.
Questo il segreto della Svizzera, dove il massimo localismo si combina con una significativa efficienza in virtù della competizione tra comuni e tra cantoni. Non soltanto le amministrazioni sono responsabilizzate, ma sono anche in qualche misura “obbligate” a costare meno e a rendere di più. Quando ciò non avviene, talune famiglie e soprattutto talune imprese si trasferiscono altrove allo scopo di pagare meno e godere di servizi migliori.
Le proposte che mirano ad accorpare le regioni attuali muovono da una constatazione: e cioè dal fallimento del regionalismo attuale, basato su una falsa autonomia che permette ai governi locali di spendere e spandere. Ma le soluzioni prospettate non colgono il nocciolo del problema, perché solo avvicinando chi paga le imposte e chi offre il servizio (saltando l’intermediazione di Roma) si possono innescare meccanismi virtuosi.
È poi significativo che in queste proposte mai si immagini una soluzione quale fu quella prospettata da Gianfranco Miglio, fautore di tre macroregioni: per il Nord, il Centro e il Sud. Un simile assetto, in effetti, darebbe una fotografia troppo nitida della divisione reale che segna l’Italia e, di conseguenza, metterebbe a rischio la struttura giacobina e centralista che ha conferito un immenso potere a Roma.
La scelta di Miglio aveva un obiettivo primariamente politico: dare una rappresentanza unitaria al Nord e, in sostanza, all’area più produttiva del Paese. Ma questo stesso studioso era consapevole che la grande virtù di un assetto federale sta nel conferire libertà e responsabilità a ogni istituzione locale, così spingere tutti a operare al meglio.
Tra l’altro, comuni e regioni chiamati a vivere delle proprie risorse potrebbero anche decidere loro stessi, per razionalizzare l’organizzazione e tagliare le spese, di accorparsi o gestire assieme taluni servizi. L’autogoverno stimola questo genere di soluzioni, ma tutto questo è ben poco chiaro a quanti, dall’alto, pretendono di fare e disfare l’assetto del Paese.
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