«Salgono redditi e consumi. Famiglie, cresce il potere d’acquisto». Titolava così ieri un giornale nazionale. Ci sarebbe da rallegrarsi. Tanto più che domani finisce la lunga stagione delle festività e riparte la vita normale con i suoi problemi quotidiani.
Oltre che trovare motivo di fiducia negli ultimi dati economici del nostro Paese, si potrebbe anche convincersi che è proprio tempo di cambiare mentalità. L’anno nuovo aiuta con i buoni propositi. E una delle belle possibilità è di riscoprire una parola che aiuta a vivere meglio: compassione. E subito dopo un’altra: resilienza.
L’invito non è tanto a consultare un vocabolario, cosa che peraltro non fa mai male vista la scarsa considerazione di cui gode l’italiano. È, invece, a guardarsi dentro più in profondità per poter vedere meglio tutto.
Gli anni della crisi hanno determinato numerosi e profondi mutamenti sia nell’economia delle famiglie, sia nei comportamenti delle persone. Le difficoltà hanno fatto aumentare il tasso di egoismo, di indifferenza, di aggressività e di violenza. Non che questi atteggiamenti siano dovuti esclusivamente ai morsi della lunga recessione con i suoi pesanti contraccolpi sulle disponibilità economiche di imprese, famiglie e individui. Purtroppo questi comportamenti sono insiti nell’uomo in qualunque tempo e nazione.
La crisi li ha peggiorati. È stata a volte la causa, altre volte il pretesto per una chiusura gretta e sorda davanti agli altri, soprattutto ai più deboli e ai più bisognosi. Le difficoltà hanno giustificato le ostilità, gli animi si sono incarogniti. Non è necessario chiamare in causa i nazionalismi, i sovranisti, i “prima noi” che sembrano oggi gli slogan vincenti in politica. È già nella semplice vita di ogni giorno che si sono viste le freddezze, le diffidenze e le indifferenze.
Ora che i dati economici ci confermano che la situazione sta lentamente migliorando non ci sono più alibi per continuare con comportamenti poco urbani e talvolta disumani. Ecco dunque la parola che ci serve: compassione. Riscopriamola per coglierne i significati profondi.
Purtroppo in italiano suona quasi male. Sembra il lasciapassare per il pietismo di bassa lega. Essere compassionevoli è altra cosa. Per chi ha dimestichezza con l’inglese è forse più facile apprezzarne il valore più autentico. Non ebbe timore l’allora premier Cameron ad affermare che la sua nazione era e sarebbe stata sempre compassionevole con le popolazioni in difficoltà.
Avere compassione è provare una particolare sensibilità alla sofferenza degli altri e sentire il desiderio di alleviarla concretamente.
Se fossimo tutti più compassionevoli con gli altri la qualità delle relazioni umane farebbe un gran salto. Due precisazioni. La prima: bisogna essere capaci, innanzitutto, di essere autocompassionevoli, cioè di provare questo atteggiamento già verso noi stessi. C’è chi, al contrario, è troppo autocritico, è un giudice severo verso se stesso e addirittura finisce per scambiare questa durezza sulla sua persona come espressione di forza caratteriale, di determinazione, di capacità. Non è così. Essere troppo critici con se stessi o addirittura perfezionisti non aiuta a essere migliori. Non necessariamente.
Al contrario studiosi affermano che le persone più autocompassionevoli sono generalmente più sicure e più motivate. Perché l’autocompassione fa scoprire loro un’altra grande parola: la resilienza, cioè la capacità di affrontare le avversità, di superarle e di trasformarle in occasioni di ripartenza. Le persone autocompassionevoli di norma sanno accettare le sconfitte e riescono a resistere alle difficoltà e a rilanciarsi.
La seconda precisazione: la compassione non è atteggiamento da riservare ai grandi problemi della vita umana, dalle guerre alle gravi malattie, dai disastri naturali alla fame nel mondo e così via.
La compassione va benissimo, anzi funziona ancora meglio, nelle piccole cose e negli ostacoli di ogni giorno.
Gli ingredienti della compassione sono la gentilezza, la condivisione e la consapevolezza. La prima, cioè la gentilezza, sembra quasi sparita nelle relazioni umane sia sul lavoro, sia in famiglia. La condivisione richiede la rinuncia agli egoismi. E la consapevolezza chiama la responsabilità, la capacità di assumersi e di rispondere dei propri doveri.
La compassione va rivolta al nostro prossimo (anche se straniero, carcerato, malato, povero), alle persone più vicine e anche a quelle lontane (non bastano le donazioni via sms) e ancora di più a quelle intermedie, in una posizione la cui distanza facilita l’indifferenza. No. Compassione per tutti. Anche per la comunità dove viviamo. Per il nostro Paese e per la famiglia umana, il nostro mondo. Per il pianeta, per la natura, per gli animali e per le piante. Per tutto ciò che è espressione della vita. Infine, se siete arrivati fin qui, permettete la battuta: siate compassionevoli anche con chi vi ha annoiato con questo scritto.
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