Rock: "End Times", gli Eels
riescono ancora a stupire

È ormai passato il periodo in cui si divertivano a fare i Gomez dell'altro lato dell'Atlantico e a impazzare in Gran Bretagna, così come quei birbantelli inglesi spopolavano in America... Ecco <End Times> degli Eels

a.cavalcanti

COMO È ormai passato il periodo in cui si divertivano a fare i Gomez dell'altro lato dell'Atlantico e a impazzare in Gran Bretagna, così come quei birbantelli inglesi spopolavano in America. Così come è passato il tempo delle carote che magistralmente prendevano le sue sembianze attraverso un artigianale lavoro di falegnameria e decoupage, mentre flemmatico lui cantava nel video di Last Stop: This Town, il singolo che li consacrò nel 1998. È finito insomma il tempo in cui, giovinotti, giocavano con la sfrontatezza di chi sa suonare, ha un buon bagaglio d'ascolti alle spalle e in virtù di questo si permette anche un po' d'irriverenza. Facendo capire che c'è sì un po' di produzione, qualche effetto elettronico da anni novanta ma in fondo l'anima era già allora venata dal blues. Erano gli Eels, piano piano divenuti E più o meno in contemporanea con l'entrata di Mark Oliver Everett nell'etica e nell'estetica dell'one man record. Gli riesce anche bene a dire il vero, ed è fastidioso quel po' che basta anche il "con il piccolo contributo di…", inserito nei crediti conclusivi dell'ultimo End Times. Sì perché i dischi degl'Eels, o di Mark Everett che dir si voglia, sono tutto fuorché rassicuranti. S'è speculato abbastanza sulle vicende biografiche che nel volgere di qualche tempo gl'hanno portato via madre e sorella e di come questo sia confluito in certa malinconia di cui sembrano intrisi gl'ultimi album. O di come la fine di una storia importante abbia ripiegato su se stessa l'espressività di E. In realtà è vero il contrario, già da Hombre Lobo era evidente una certa voglia di riscossa e se in quel caso l'urgenza lasciava troppo spazio a una grinta rabbiosa, in End Times, a tutto dispetto del titolo, c'è mirabile lucidità. Compositiva, soprattutto. L'arte di scrivere canzoni è anche questo: un pregevole equilibrio capace di reggersi in tre minuti o poco più. Ed è vero il contrario perché E si rifà al blues e ai suoi elementi essenziali: mettere in piazza i problemi, le alienazioni, le angosce ma sfruttando la leggerezza di un arrangiamento minimale o l'ironia nei testi per evitare il bieco compiacimento o peggio ancora il crogiuolo nel dolore. È in questo, ancor prima che nelle dodici battute o in certi accordi indolenti della chitarra, che End Times profuma di blues. Oltre a essere un concept nel senso più completo del termine: si inizia con The Beginning, vago rimpianto dei piaceri iniziali di un amore che si deduce passato, in cui è il semplice accompagnamento della chitarra a suggerire le prime carezze. E si conclude con On My Feet, un'invocazione fiduciosa alla capacità di rimettersi in piedi. Passando per le sottili richieste d'amore di In My Younger Days, l'ironico racconto di bizzarre convivenze di A Line In The Dirt a cui fa da contraltare il simpatico arrangiamento di piano banjo e archi, la trasposizione di un dolore personale in qualcosa di collettivo nella title-track, le ammissioni di I Need a Mother, una dedica piano e voce. Ecco, la voce. Un capitolo a parte in quest'ultima fatica targata Eels. Per carità, E ha da tempo dimostrato di saper cantare ma qui la piega alle esigenze di ogni singolo brano senza che questo comporti alcun effetto bozzettistico. Ora roca e capace di dispiegarsi sulle impennate della melodia, ora increspata e funzionale al borbottio di un quasi parlato in Little Bird, ora mobile e grotesque come in Paradise Blues. O filtrata dal delay a suggerire l'auspicio evocato in chiusura da On My Feet. End Times è sicuramente un lavoro sofferto, qualche mal di stomaco lo provoca anche nell'ascoltatore, nonostante le raffinatezze nel songwriting di E. Meno male.
Andrea Di Gennaro

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Lunedì 19 Aprile 2010

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