Se Fantozzi la sa
più lunga di Pasolini

C’è stato un momento in cui sono morti gli anni Settanta. E come spesso capita a chi voglia vedere la storia non con la lente dell’avvenimento, del grande fatto, dell’evento simbolico e scenografico, quanto invece con quella della lunga durata, del sommovimento impercettibile, della trasformazione subliminale destinata ad avere conseguenze ampissime e profonde, per quanto anonime, quel momento è fissato in una data. Il 27 marzo 1975. Quarant’anni fa. L’esordio del film “Fantozzi” nei cinema italiani.

Non è uno scherzo, ma lo spunto di una riflessione

tanto surreale quanto intelligente firmata da Michele Masneri su “Rivista studio”, che teorizza come le disavventure del più fallito e meno picaresco dei ragionieri abbiano raccontato meglio degli “Scritti corsari” di Pasolini – scandalo! - l’imborghesimento italiano e l’uscita dalla stagione delle ideologie. La cosa a prima vista fa sorridere, perché da una parte stiamo parlando di uno degli autori più geniali del Novecento e dall’altra di una saga cinematografica ultrapopolare e di nessuna ambizione artistica. Però, per chi conosca bene l’uno e l’altro, il ragionamento tiene. Qual è stata la grande frattura operata da Villaggio – prima come scrittore di successo e (detto senza ironia) di grande perizia tecnica e poi come strepitosa maschera attoriale – nella cultura degli anni Settanta? Quale la sua novità, la sua differenza, la sua indole “rivoluzionaria”? Quella di aver svelato il bluff, l’immagine edulcorata, irrealistica e tutta ideologica della società italiana consegnataci da una serie di autori certo di valore – non solo Pasolini, ma anche Antonioni e Moravia, ad esempio – che però hanno sempre puntato a una rappresentazione scenica che contrapponesse il Bene al Male.

Da una parte il potere, le multinazionali, la casta, il blocco sociale reazionario, ultraconservatore, codino, ipocrita e, in buona sostanza, ancora fascistoide, manganellatore e autoritario, sintetizzato plasticamente nel controllo paternalistico e occhiuto della Democrazia cristiana. Il contesto. Dall’altra, invece, le masse popolari umiliate, offese e neglette, una marea montante di operai, contadini, professori, studenti eroici, coraggiosi e disperati, capaci di resistere al regime e di unire le forze per disegnare un nuovo futuro, una nuova partenza, una nuova società composta dai liberi e dai giusti, identificata nel monolito del Partito comunista e nella sua superiorità antropologica e morale. E su questo schema – mentre infuriavano la crisi economica e la tragedia del terrorismo – sono state costruite di certo formidabili carriere politiche e giornalistiche, ma anche alcune opere d’arte di altissimo livello, basti pensare alla filmografia militante di Elio Petri.

Ma non era così. Non era affatto così. Perché una volta scrostati dalle sghignazzate per il “batti lei”, dalle toccate di gomito dopo il “sono stato azzurro di sci” e dalle mani sulla pancia causate da il “tordo intero”, dai film di Fantozzi – i primi due davvero divertenti, gli altri un’ignobile rimasticatura di scene trite e ritrite - emergeva la realtà, quella vera, quella non idealizzata dal salotto degli eletti. Lì, già lì, nel pieno dei bui e terribili anni Settanta, stava montando la risacca, il riflusso, il Termidoro. L’italiano medio, borghese, anzi, piccolo borghese – come il titolo del capolavoro di Monicelli, che nel primo tempo rimane su uno spartito fantozziano - che stava moltiplicandosi a milioni di milioni, non era né eroico né nobile né idealista né, soprattutto, rivoluzionario. Vessato, certo, umiliato e offeso, pure, ma non tanto dalla protervia del padronato quanto dalla sua genetica e schifosissima indole votata al servilismo, allo sdilinquimento, alla piaggeria. Dal palcoscenico scompaiono gli operai e gli studenti, la scena è tutta rubata dagli impiegati, dai geometri, dai ragionieri, appunto. Ed è un panorama umano devastante, lombrosiano: un florilegio di falliti, incolti, meschini, inermi, pusillanimi, servi, piccini, lazzaroni, scansafatiche, pantofolai, con certi vestiti, certe cravatte, certi tinelli lustrati dalla Pina, certe utilitarie, certi ideali d’amore – la signorina Silvani – che nulla avevano a che fare con la letteratura e la cultura impegnata con la quale i maestri di pensiero ci avevano ammorbato per un decennio.

La critica militante, alla faccia del successo di pubblico, l’ha subito qualificato come cinema spazzatura - e questo ci sta - ma la vivisezione demolitoria, termitesca delle impalcature dell’ortodossia ufficiale della sinistra da salotto era partita. La sinistra non aveva capito niente anche stavolta, del popolo italiano, quello vero, per quanto ribrezzo potesse fare. Ma forse anche del genere umano in generale, a pensarci bene. Per ogni eroe, ci sono mille vigliacchi, questa è la verità. E che la scalinata delle battaglie di Villa Giulia e dei sampietrini contro la Celere sia la stessa che Fantozzi, vestito da bebè, percorre nella scena memorabile dell’ “occhio della madre” della “Corazzata Potemkin” rappresenta quasi una nemesi storica.

L’iperbole del megadirettore laterale e siderale, del duca conte con l’uzzolo della stecca, del manager cinefilo e l’ignobile, spassosissimo servilismo degli impiegati obbligati a perdere a biliardo, a sorbirsi film cecoslovacchi al posto della partita e a partecipare alla gara ciclistica aziendale, andava a cogliere la radice più profonda di quella zona grigia, di quel ventre molle, di quella palude centrista senza volto, senza ideali, senza onore che si è sempre acquattata dietro ai partiti d’ordine con la sola aspirazione ad andare avanti a farsi i fatti propri, a vivere la propria piccola vita costituita da mogli topesche, 77 barrati e finte malattie per andare al circo. Gli uomini senza qualità. Villaggio, nel suo piccolo, l’aveva capito come sono fatti gli esseri umani. Tanti soloni, nella loro immensità, no. E anche questo spiega un sacco di cose della povera Italia di oggi.

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@DiegoMinonzio

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