Chi ha memoria del calcio degli anni ’70 rammenterà che vi erano due categorie di presidenti: gli Agnelli e gli altri, accomunati dalla definizione “ricchi scemi” perché sacrificavano miliardi (allora di lire) sull’altare bianconero che, salvo sporadiche eccezioni, si portava sempre a casa tutto il piatto tricolore.
Silvio Berlusconi che (forse) esce definitivamente di scena ha rappresentato il riscatto dei “ricchi scemi”. Spendere ha speso, il suo Milan dei bei tempi aveva panchine che valevano più di una manciata di squadre di provincia, ma ha anche, per un bel po’, mandato la real casa torinese a ravanare nel rusco, dominando quelle lande europee in cui la Signora si era quasi sempre mossa a tentoni, almeno fino allo scorso martedì.
Solo per quello l’altra metà de cielo calcistico, e non solo il popolo rossonero che lo saluta con qualche nostalgico luccicone, dovrebbe tributargli gratitudine. Ma questa è solo una faccia della solarissima luna Berlusconi. Poi c’è quella del devastante impatto delle sue lucide visioni sul mondo del calcio che, al pari di quello della politica, lui più di ogni altro ha contribuito a tramutare nella monodimensione dello spettacolo, catalizzato dal piccolo schermo della tv di cui, non a caso, si era appropriato preventivamente. Se oggi il frastuono dei telecronisti sovrasta ogni ciabattare a centrocampo, se vi sono portieri con il numero 99 sulla schiena e attaccanti con il 2, se si vedono in campo maglie che non identificano più le squadre, se i palloni volano come biglie lanciate da una fionda, la colpa o il merito è soprattutto sua, di una rivoluzione che come tutte le altre ha finito per divorare chi l’ha avviata. Lo stesso destino a cui è andato incontro Arrigo Sacchi, colui che ci ha fatto scoprire com’era fatta l’altra metà del Bernabeu, l’allenatore che ha scalato tutte le vette a braccetto di Silvio.
Berlusconi lascia, è un addio infinito, perché ha capito davvero che non potrà più vincere. E un Silvio che non prevale è come il Fonzie che non riesce a pronunciare la frase: “mi dispiace”. Ci ha messo un po’ , Berlusconi, perché è un testardo. Se non lo fosse sarebbe già andato a casa da un pezzo anche dalla ribalta politica, dove sono Renzi e Grillo a scannarsi per la sua eredità di quel fare politica che ha mandato in naftalina grisaglie e contenuti a favore di slogan, completi Caraceni e partiti, non caso, ribattezzati con il linguaggio da stadio.
Forse, in politica, il nostro regge ancora bordone perché non ha trovato il cinese giusto a cui sbolognare Forza Italia, dopo aver tritato una pattuglia di “principi Carlo” in perenne attesa di trovare il trono sgombro. Ma quando avrà compreso, magari dopo le elezioni del 2018, di non poter più vincere anche lì (la qualità della concorrenza, va detto, è molto inferiore di quella pedatoria), passerà la mano senza che vi sia nessuno in grado di tenere il testimone.
Silvio lascia in un mondo che non è più lo stesso, nel calcio e non solo. E il derby (o delby) di domani ne è la più plastica e spietata metafora: in campo all’ora di pranzo due squadre meneghine made in Cina. Davvero un calcio dell’altro mondo. Abbiate pietà, almeno, per le maglie.
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