La Giustizia sigilla i suoi fascicoli. La cronaca e la storia no. Diciamo questo per chiarire che, sul fronte dell’informazione, non ci sono argomenti tabù. Quando emerge un fatto nuovo, quando è possibile accedere a una testimonianza inedita, giornalisti e storici hanno il diritto, oltre che il dovere, di riaprire pagine dolorose, scomode, scandalose.
La strage di Erba - perpetrata da Olindo Romano e Rosa Bazzi la sera dell’11 dicembre 2006, ormai sette anni fa - non gode di alcuna giurisdizione particolare: se qualcuno ha qualcosa di utile e di serio da dire, se esistono risvolti non ancora chiariti e, soprattutto, se esistono elementi che indurrebbero a riscrivere tutto o in parte quel dolorosissimo capitolo nella storia della città brianzola, si proceda pure. Si proceda a dispetto del fatto che rievocare la strage significa torturare i nervi e l’anima di chi, in quel delitto, perse buona parte dei suoi affetti e significa costringere le vittime indirette dell’orrore a rivivere giorni impossibili. Ma tant’è: se è necessario, va fatto.
Se, al contrario, parlare della strage di Erba serve solo a riempire una serata in un palinsesto televisivo, a offrire al pubblico la fallace impressione che il “caso è ancora aperto”, a garantire visibilità ad avvocati - è il caso di dirlo - dalle cause perse e a criminologhe dal tacco sottile e dagli scrupoli impalpabili, allora è meglio, molto meglio, fermarsi. Anzi, bisogna affermare che in quella maniera non si fa né storia né informazione e che dai tempi delle donne barbute e degli uomini-elefante nessuno si era mai permesso di proporre uno spettacolo tanto degradante
Nell’ostinazione a portare la strage in prima serata, sospettiamo un triste movente: c’è infatti chi ha un assoluto bisogno di rievocare quell’episodio per evitare di affondare nell’anonimato, nell’oblio, nella mediocrità. A costoro basta sfrucugliare un poco negli atti del processo, rivangare un qualche dettaglio irrilevante e ingigantire un particolare secondario per ritrovarsi sotto i riflettori, in diretta tv oppure nei titoli dei giornali e dei telegiornali. Di questo meccanismo è rimasto prigioniero - quanto è triste dirlo! - perfino una delle vittime: quell’Azouz Marzouk che oggi va dicendo di credere nell’innocenza dei condannati probabilmente perché ciò gli guadagna un miserevole residuo di popolarità, due briciole di attenzione mediatica. Peccato che tutto ciò stia tormentando un uomo, Carlo Castagna, che avrebbe diritto a un poco di pace. Peccato che il trucido spettacolino vada infangando il nome di una persona, legata a Castagna, che desidererebbe soltanto riprendere a vivere e curare ogni giorno i postumi di una ferita tanto profonda.
La sera dell’11 dicembre 2006 furono uccise quattro persone - Raffaella Castagna, sua mamma Paola Galli, suo figlio Youssef Marzouk e la sua vicina di casa Valeria Cherubini; una quinta persona - Mario Frigerio - venne gravemente ferita. Il dolore provato dalle famiglie coinvolte fu, crediamo, indescrivibile. Ma è anche difficile capire quanta angoscia, incertezza e confusione un simile orrore abbia impresso sulla carne viva della comunità erbese. Sappiamo che è difficile affermarlo nell’era della comunicazione globale, ma tutto ciò vale più, molto più, di una inutile serata in televisione.
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