La fortuna attraversa il confine, ma in entrambe le direzioni e senza farsi fermare facilmente. Non un’opinione, bensì un fatto che è emerso ancora con forza in queste ore a proposito dei rapporti tra Svizzera e Italia, Como in testa.
Sì, si può mettere il broncio – da parte ticinese -, gridare “Prima i nostri” e accumulare vincoli e regole che fanno impallidire di invidia la nostra burocrazia, pur di frenare l’accesso italiano. Eppure il risultato non cambia, perché scolpito dalla storia e anche dal buon senso.
La storia, prima di tutto: è stato ricordato bene ieri dalla delegazione regionale alla presentazione dell’Interreg. Tanta, tantissima quella in comune: parliamo di secoli, in cui i fili si sono stretti senza soffocare, al contrario lanciando l’economia ticinese come pure la nostra. Collaborare ci ha fatto bene, che lo si voglia ammettere o no.
Il buon senso poi conduce direttamente al futuro: con il mercato globale, irrobustire le barriere tra la Confederazione elvetica e l’Italia significa procurarsi solo del male.
L’Interreg e il fermento che sta creando, è un buon segnale di possibilità di cooperazione. Ma gli stessi dati del 2016 relativi ai frontalieri in Ticino conferma con ulteriore forza ciò che non sappiamo mai abbastanza: abbiamo bisogno gli uni degli altri. Di più, insieme possiamo crescere contro ogni crisi, oltre ogni ostacolo, se questi territori si alleano.
La fortuna è reciproca, si è esclamato ieri al convegno di Lariofiere: basta volerlo vedere e agire di conseguenza. Per questo motivo, nonostante la tensione alimentata da alcuni ambienti ticinesi, i frontalieri continuano a crescere. E anche quando il numero è vacillato, non è che ciò che abbia comportato lo stop degli ingressi: hanno cambiato tecnica, diciamo, tutto lì. Così si è rafforzato il fenomeno dei domiciliati, con i lavoratori che si trasferivano magari su stessa richiesta delle associazioni, ad esempio.
Eppure alla fine del 2016 la quota dei lavoratori stranieri è salita di nuovo; qualcuno dice anche che sia un effetto della Lia, il nuovo albo antipadroncini che rischia di provocare ferite alle stesse aziende ticinesi, tanto che “in casa” il malumore non è mancato. Ciò che si butta fuori dalla porta, insomma, torna dalla finestra o dal minimo spiraglio a disposizione.
Di fronte a queste tendenze che si stanno manifestando nella Confederazione elvetica e in Canton Ticino, è possibile certo continuare a seminare divisioni (soprattutto nel secondo, visto che da parte di Berna continuano le rassicurazioni). Oppure si può prendere atto del fatto che le nostre sorti sono unite e magari compiere un passo in più: farcelo piacere.
Perché è piacevole. Per l’Italia è più facile rendersene conto, ogni giorno, poiché le opportunità offerte dai vicini sono tangibili in un momento storico ancora gravato dagli strascichi della crisi. Per il Ticino, però, non è una missione impossibile e il mondo produttivo ne è consapevole: il suo progresso è legato anche ai lavoratori frontalieri, alle aziende italiane che hanno investito.
Altrimenti non si spiegano iniziative come quella di ormai quattro anni fa, “Benvenuta impresa”. Che fece gola a molti imprenditori del nostro Paese, sicuro, ma che mostrò anche un Comune come quello di Chiasso con le braccia spalancate verso gli italiani e la fortuna che rappresentano.
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