Tra le tante brillanti uscite attribuite a Winston Churchill, ce n’è una che ci riguarda: «Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre».
Lo statista inglese, dalle nostre parti, frequentò il lago di Como e non la Riviera ligure, altrimenti avrebbe saputo che, nel complesso delle tempeste in un bicchiere d’acqua così gagliardamente alimentate dalla vis polemica nazionale, il Festival di Sanremo rappresenta una parte molto importante. O forse dovremmo dire rappresentava, perché oggi, anche per quanto riguarda la scelta del terreno su cui scontrarci, abbiamo perduto ogni punto di riferimento.
Perfino il gusto di trasformare in una questione di stato anche il più mondano e lieve degli avvenimenti - come, appunto, il Festival - si diluisce oggi nella incessante truculenza del chiacchiericcio online, dell’invettiva social e, più in generale, di una dialettica che ha perduto ogni timbro, ogni sfumatura che non siano quelle dell’urlo rabbioso e della risata sgangherata.
Potevano dunque Claudio Baglioni e i suoi sodali sanremesi farsi ameno bersaglio per un Paese ormai abituato a litigare per un “post” e a scannarsi per una notizia rigorosamente “fake”? Potevano, forti di tradizione ma di poco altro, concedere un turno di riposo alle Boldrini e ai “buonisti”, ai “sinistri” e ai “destri” protagonisti della quotidiana litania degli insulti?
In teatro si pretende dallo spettatore la sospensione dell’incredulità, ma lo sforzo chiesto al pubblico dell’Ariston, così come a quello televisivo, questa volta era davvero sovrumano. Non c’è distrazione possibile che un Festival possa offrire, se ormai tutto è distrazione: Facebook, WhatsApp, Netflix e perfino Amazon che ci avvisa come i calzini antiscivolo saranno senz’altro in consegna domani in giornata.
Povero Sanremo tutto baglionato e hunzikerato, rimesso a nuovo e risintonizzato sulla canzone italiana: sarà un successo, chi ne dubita?, ma in polvere, interrotto e ridotto a nulla dalla nostra incapacità di soffermarci, di analizzare e di ascoltare. L’unità nazionale è perduta perfino sulla scelta delle divisioni da praticare.
Saremo è un’istituzione e istituzione rimane ma di questi tempi non è certo un complimento: le istituzioni non piacciono a nessuno. Nascondono, si dice, solo incapacità e privilegi. Se ci mettiamo a far girare la notizia che lMichelle Hunziker, al terzo Sanremo, si assicura un vitalizio facciamo un sacco di contatti e ci pigliamo diecimila “vergogna” e anche più “fate girare” e “tutti devono sapere!”
Ci ha provato l’apripista Fiorello, subito nell’arena a fronteggiare un “invasore di campo” dopo la sigla, a convincerci che Saremo è sempre parte comune di noi, ma dubitiamo che ci sia riuscito. La realtà era forse rappresentata dall’invasore - confuso e un po’ disperato come tanti oggigiorno -, il resto, come sempre, era Sanremo. Una volta bastava. Adesso, chissà.
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