In genere i monumenti segnano un nuovo inizio. Cadono le statue dei dittatori quando viene conquistata la democrazia. E accade il contrario quando le libertà vengono sospese da un regime politico autoritario. Oppure i monumenti servono a tenere viva la memoria di fatti o persone di particolare rilievo. In ogni caso, e quelli realizzati a Como non fanno eccezione, in genere sorgono sulla spinta di un particolare dinamismo della comunità locale. Ora, certo, la storia di “The Life Electric” è molto particolare. Si tratta di un dono alla città dell’autore, Daniel Libeskind, e di un’associazione “Gli Amici di Como” (vale la pena dirlo una volta di più viste le bufale che circolano sui social network: il Comune non ha tirato fuori un solo euro). Ma allo stesso tempo è una vicenda significativa che richiama alla memoria quanto successe nel 1899 in occasione della Grande esposizione organizzata ai giardini a lago per il centenario della pila (nell’ex casello dell’acquedotto industriale, di fronte al Tempio Voltiano, è aperta in questi giorni una bella mostra fotografica dedicata a quell’evento). Bene, allora uno spaventoso incendio distrusse gran parte dei padiglioni, poche settimane dopo la partecipazione del re alla cerimonia di inaugurazione. Fu, capirete bene, un’autentica sciagura, di origine pare accidentale.
E i comaschi cosa fecero? Ricostruirono tutto grazie, soprattutto, all’intervento dei privati che, spinti da una sorta di mecenatismo civico, si fecero carico dei costi, ingenti, per riaprire tutto nel giro di un mese. Ci fu una sorta di sottoscrizione popolare e a tempo di record furono trovati i capitali necessari per intervenire.
I tempi sono cambiati ma nell’iniziativa degli Amici di Como c’è traccia dello spirito di allora, quello stesso spirito che ha aiutato la città in ogni momento chiave della sua storia contemporanea. E del resto l’opera di oggi non casca dal cielo e non è un clone di precedenti progetti (altra panzana nata sui social e ripresa, ahinoi, in una sede come il consiglio comunale). Il monumento di Libeskind è ultima tappa di un percorso voltiano che già si snoda attraverso almeno cinque altri significativi luoghi della città. Non solo, la riuscita di quest’iniziativa, così come è avvenuto in passato, aumenta l’autostima dei comaschi e – perlomeno questo è l’auspicio – servirà a dare un impulso particolare alla città nel suo insieme anche su altre partite decisive. Tanti, anche tra i sapientoni della Como che la sa lunga, avevano fatto previsioni nere per questo cantiere. Si sono sentite cose tipo - “il fondo è limaccioso e i pali non verranno fissati” - qualcuno ha avuto il coraggio di tirare in ballo le complicazioni tecniche dell’intervento sul lungolago. Tutte balle, frutto un po’ dello sconforto di una città abituata ai lavori infiniti ma anche della tendenza inveterata a vedere sempre nero, a considerare sempre male ogni elemento di novità.
Chi scrive non ha competenza per valutare l’opera. A molti piace, ad altri no. Qualche critico ha pure cambiato idea quando si è accorto che non è stato costruito quel condominio al centro del primo bacino che qualcuno aveva prefigurato. Ma su questi temi il dibattito andrà avanti all’infinito così come è stato in occasione di ogni pur piccola trasformazione della città. Se c’è chi rimpiange le auto parcheggiate in piazza Cavour è ragionevole pensare che in tanti, a lungo, militeranno del partito del “meglio prima”. Tutte opinioni legittime. Comune però, oggi, l’orgoglio, tutto comasco, di avere realizzato una cosa grande, un nuovo simbolo per la città di domani.
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