Musica
Lunedì 16 Maggio 2011
Debutti: «Dr. House» Laurie
alla conquista di New Orleans
Non sarà cinico e privo di filtri verbali come il personaggio che lo ha reso celeberrimo, ovvero il Dr. House, ma anche nella vita quotidiana Hugh Laurie dà segno di non mancare di realismo. Per parlare di “Let them talk”, il suo esordio in campo musicale, prodotto da un asso come Joe Henry, suonato dalla crème dei musicisti di New Orleans, l'attore inglese impegnato come eccellente pianista, buon chitarrista e convincente cantante
Non ho mai mangiato gritz (una sorta di semolino tipico della Louisiana, ndr.), non sono mai stato un bracciante sotto padrone, non sono mai saltato su un carro merci.
Nessuna fattucchiera zingara era presente alla mia nascita e non c'è nessun cane infernale sulle mie tracce. Lasciamo che questo disco dimostri che sono un inglese, bianco, classe media che fa apertamente il passo più lungo della sua gamba (senza bastone, ndr.) verso la musica e il mito del Sud degli Usa. Se questo non fosse abbastanza negativo, sono pure un attore: uno di quegli sfigati viziati che non riesce a uscire da un aeroporto senza una balia. Non mi sorprenderei se scoprissi di avere un tatuaggio cinese sulle chiappe. O sul gomito. Ma quello che è peggio, ho rotto un'importante regola dell'arte, della musica e della costruzione di una carriera: si suppone che gli attori facciano gli attori e i musicisti facciano i musicisti. Funziona così. Non comperi un pesce da un dentista, non chiedi a un idraulico consigli finanziari, per cui perché ascoltare la musica di un attore?”. Prima che si possa rispondere, Laurie lo fa da sé con la considerazione più esatta: “La risposta è che non c'è risposta”. Però c'è un album ed è anche un buon album. Niente che non si sia già ascoltato, a cominciare da canzoni abusate come “Battle of Jericho”, “Swanee river” o “John Henry”. Hugh non avrà un “hellhound on his trail” (tutte le considerazioni di prima sono tratte da testi di noti blues) ma rilegge con brio “They're red hot”, l'unico brano di Robert Johnson venato di swing. Da esperto interprete (in scena, in televisione e al cinema) ritarda il suo ingresso nell'iniziale “St. James infirmary”, ben sapendo che tutti i suoi fan (tutte le sue fan, siamo più precisi) attendono di ascoltare la sua voce anche se, fin dalla prima battuta, dimostra di essere un pianista che ha una base classica - tale Mrs. Hare, precisa nelle note - ben presto abbandonata in favore dell'orribile musica da bordello che, sicuramente, non piaceva a quella signora inglese. I suoi modelli sono Fats Domino e Allen Toussaint che ha arrangiato alcuni brani, grazie agli auspici del produttore che lavorò con questo gigante nel disco condiviso con Elvis Costello (un altro inglese che “si allarga”). Fra questi, va detto, Laurie si prende anche un clamoroso rischio: affrontare “Tipitina”, l'inno nazionale non ufficiale di New Orleans, appannaggio di personaggi come Professor Longhair e Dr. John (che, naturalmente, è della partita, assieme a Irma Thomas: non male come regalino per l'attore). Il confronto potrebbe essere impietoso, invece l'approccio rispettoso, quasi religioso alla materia alla fine rende “Let them talk” un disco che si fa apprezzare senza neppure una pasticca di Vicodin.
Alessio Brunialti
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