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Domenica 23 Giugno 2013
Il fiammeggiante “13”
dei Black Sabbath
È proprio Osbourne il protagonista dell’album
Lui che mancava in un disco con la band dal ’78
Vizi e virtù di un lavoro che lascia tanti dubbi
Sono tornati, anche se solo per una sera, i Led Zeppelin, i Deep Purple non se ne sono mai andati (nei negozi l’ultimo album): all’appello della trimurti che ha forgiato l’idea di rock “duro” mancavano solo i Black Sabbath e rieccoli qua, nella formazione storica (quasi) al completo, quella che sposava alla chitarra spettrale una voce unica e un basso profondo.
Una situazione difficile
Ma la band che fu dark prima che nascessero i dark non è messa benissimo: Tony Iommi è malato, gravemente, e se tornare a registrare con la sua creatura può essere stato terapeutico, è anche vero che tutto è passato, giustamente, in secondo piano per consentire al chitarrista di curarsi.
Dopo la morte di Dio (non male come frase da scrivere), il microfono torna nelle mani di Ozzy Osbourne e, diciamocelo, guardando le sue mani, le dita tatuate con le lettere del suo nome, è facile pensare che servano per ricordare il suo nome a un artista prossimo alla rottamazione.
Il reality familiare che ha visto protagonista lui e tutti i suoi cari ci hanno restituito la figura di una rockstar smarrita in se stessa, vittima postuma di mille eccessi, che balbetta e borbotta frasi incomprensibili.
Anche se il bassista Geezer Butler fosse in piena forma, nessuno si cura di lui, bensì dell’assenza polemica di Bill Ward, batterista sostituito, per l’occasione da Brad Wilk dei Rage Against The Machine, che pesta duro quanto basta, ma non c’era nel 1970, lasciando incompiuta la reunion del quartetto originale (questione di soldi, se non si fosse capito). A questo aggiungiamo un produttore invadente come Rick Rubin, che sta iniziando a perdere di vista il suo ruolo (è appena stato defenestrato da Crosby, Stills & Nash, e va bene essere eclettici, ma passare da loro ai Sabbath…) e che a questi vecchioni non chiede altro che ripetere il sound del primo album, e abbiamo tutti gli ingredienti per un bel disastro.
E invece no! “13” non è un capolavoro, ma un buon disco di gente che non ha niente da dimostrare, suona e si diverte e riesce ancora a regalare brividi. Bastano i quattro accordi cupi come la morte di “End of the beginning” mentre la voce ringiovanita di Ozzy chiede “Questa è la fine dell’inizio o l’inizio della fine?” per calarsi nuovamente nell’atmosfera pestifera degli album storici.
Ozzy, il silenzio durava dal ’78
È proprio Osbourne il grande protagonista del disco: non realizzava un album di inediti con il gruppo dal lontano 1978. Se a questo sommiamo che Butler era assente da quasi vent’anni e che i Black Sabbath non pubblicavano nuovo materiale dal 1995 ecco che il disco assume un aspetto ancora più importante. Ma in mezzo ci sono stati dei reunion tour che hanno permesso a questi vecchietti di riaffilare le armi e bene hanno fatto ad attendere di avere qualcosa da dire. Dio, dicevamo prima, è morto: Ronnie James Dio, che aveva rilevato Ozzy alla fine degli anni Settanta, è scomparso tre anni fa.
Chissà se Butler, autore di tutti i testi, ha colto un’ironia nell’intitolare una canzone, che è anche il singolo che ha anticipato l’album, “God is dead?”. Più probabilmente pensava a Nietzsche. Dopo due brani che superano gli otto minuti, “Loner” e “Zeitgeist” si contengono sotto i cinque: la prima è costruita su un rif mortifero di Iommi, la seconda è acustica con la voce filtrata con un effetto che non si ascoltava dal 1971 e qui i conoscitori della band riconosceranno immediatamente un debito nei confronti del classico “Planet caravan” (da “Paranoid”).
Sono pezzi come “Age of reason”, in compenso, che fanno sentire davvero la mancanza di Bill Ward: Brad Wilk ha con lui solo le iniziali. Peccato. Funziona meglio quando ha a che fare con l’incedere maestoso di “Live forever” e “Damaged soul”.
Se tutto l’album deve venire a patti con il passato, “Dear father” chiude “13” con lo stesso vento, la stessa pioggia e la stessa campana che aprivano “Black Sabbath” (album e brano omonimo), puntualizzazione forse non necessaria, ma perché non farlo? Ora si tratta davvero di capire se questa è già la fine dell’inizio o l’inizio della fine della band.
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