È quanto sostiene Claudio Castelli, direttore del Dipartimento di Scienze Motorie e della Unità operativa di Ortopedia degli Ospedali Riuniti di Bergamo, spesso relatore di punta ai convegni che riguardano le nuove frontiere della chirurgia in questo settore. Con lui è opportuno mettere a fuoco, in particolare, i progressi ottenuti e consolidati (documentati cioè dalle evidenze dei risultati a medio e lungo termine) negli interventi di protesi dell'anca e del ginocchio.
Professore, perchè, a proposito di sfide per il futuro, ha parlato di risultati a medio e lungo termine?
«Perchè è quello che interessa ai pazienti, e quindi a noi chirurghi ortopedici. Un paziente vuole risolvere i suoi problemi, cioè stare bene, e per un lungo o lunghissimo periodo di tempo. Questo non esclude che il paziente si aspetti un decorso post operatorio ed un recupero ragionevolmente veloce. Cosa che è possibile perseguire con buon senso, grazie alle tecniche chirurgiche ed anestesiologiche oggi in uso, e ad un programma riabilitativo integrato. In sintesi, grazie al lavoro di una equipe che, resa esperta da un volume adeguato di attività specifica, cioè ad un numero minimo critico di interventi eseguiti in un certo lasso di tempo, conosca e rispetti i piccoli ma essenziali dettagli che alla fine fanno la differenza. In poche parole, è un problema di uomini e di organizzazione».
Ci sono tecniche nuove?
«Non le definirei nuove. Dal punto di vista chirurgico si possono utilizzare differenti accessi chirurgici - cioè incisioni e ”percorsi anatomici” - adattati alle caratteristiche del paziente. Alcuni sono definiti mininvasivi, in modo accattivante ma improprio e fuorviante. Sono in genere una rivisitazione di tecniche già utilizzate negli Anni '60 e '70 ma utilizzando gli strumenti che i chirurgi ortopedici hanno oggi a disposizione, anche se la differenza la fa ancora l'esperienza e la cura per i dettagli, rappresentata dalla dedizione e della passione per la professione, condita da una sana autocritica che consente costantemente di migliorarsi, comprendendo anche i propri errori. In questo modo il chirurgo diventa meno invasivo e rispettoso dei tessuti. Dal punto di vista anestesiologico, le tecniche che controllano il dolore in senso globale e minimizzano lo stress chirurgico sono forse ancora più importanti per favorire recuperi post operatori veloci. In ogni caso, rispetto ad alcuni anni fa, un paziente colllaborante e in buone condizioni generali può riprendere a camminare nei primi giorni dopo la chirurgia».
Il risultato funzionale a medio e lungo termine è influenzato dal decorso post operatorio?
«Solo molto parzialmente. La qualità del risultato funzionale, cioè la percezione di "normalità", dipendono dalla qualità della ricostruzione articolare, oltre che dal processo riabilitativo. Nel dettaglio, alcuni particolari quali l'accuratezza della tecnica e un trascurabile tasso di complicanze possono essere indipendenti dalla precocità del recupero. Al contrario, in mancanza di una specifica esperienza che richiede sempre tempo e studio, metodiche "nuove" e teoricamente migliori possono creare maggiori difficoltà o imprevedibilità nel risultato della ricostruzione articolare. Il buon senso dei nostri nonni ci ha insegnato che ogni innovazione richiede un cambiamento, ma che i cambiamenti non sempre sono un'innovazione e che un'innovazione non è necessariamente un miglioramento».
A lei non piace innovare?
«Al contrario, credo che l'innovazione, se è miglioramento, sia indispensabile. Inoltre credo che i centri come il nostro, a maggior volume di attività, abbiano il compito istituzionale di innovare, ma anche il dovere di valutare con scrupolo i risultati, cioè i potenziali vantaggi e svantaggi, prima di intraprendere un cambiamento utile. E questo, lo ripeto, richiede tempo, lavoro, umiltà e pazienza. Il trionfalismo ottimista non paga mai».
Quali sono le attuali evidenze per quel che riguarda la durata delle protesi?
«Purtroppo l'evidenza scientifica clinica, oltre che di laboratorio (cioè quella che studiano i bioingegneri) è che non abbiamo materaili esenti da fenomeni di usura e quindi in grado di durare “ per sempre”. Esistono vari materiali che possono essere scelti in base all'età ed alle caratteristiche del soggetto, come il morfotipo, il sesso, il peso, il livello di attività. Tutti, in modo differente, sono però soggetti a fenomeni di usura che si verifica dove c'è il movimento. Il paziente deve quindi sottoporsi periodicamente, anche se sta bene, a dei controlli, adottando un vero e proprio programma di manutenzione. Se e quando il logorio, idealmente dopo almeno un decennio o più, supera un certo limite (si usa il termine ingegneristico di usura volumetrica o lineare), raggiuunge una certa soglia, è possibile intervenire sostituendo solo quella parte della protesi che si sta usurando, lasciando in sede il resto. Si può così disporre di un impianto che po' durare più decenni, intervenendo nel frattempo solo per sostituire la cosiddetta “ guarnizione”».
Quanto conta il tipo di protesi e di materiale?
«Difficile rispondere. I risultati verificati rigorosamente a volte ci hanno illuso e disilluso. E' di questi giorni, ad esempio, una serie di articoli che definirei "terroristici" comparsi su importanti testate giornalistiche statunitensi che hanno accusato le cosiddette protesi di “ rivestimento” di fallimenti precoci inaccettabili. Questo esempio induce tutta la comunità scientifica ad una riflessione, soprattutto sulla sproporzione tra aspettative quasi miracolistche e risultati documentati. In particolare quando le une e gli altri sono oggetto di comunicazione più sui media di ampia diffusione che sullle riviste scientifiche. Molto più concretamente, il miglioramento in questo ambito passa attraverso il progresso tecnologico serio, cauto e documentato. Mi riferisco sia ai materiali sia a tutto quello di tecnologico che può aiutare il chirurgo ad essere ancora più accurato e "ripetibile" nell' eseguire il proprio lavoro».
© RIPRODUZIONE RISERVATA