De Piccoli: «Cantù è per sempre
Anche se mia figlia lavora per Milano»

Siano andati a cercare il 56enne che in Brianza ballò una sola stagione

«Il passato resta sempre vivo. A Cantù ho giocato una sola stagione, ma rammento quell’esperienza con tanto affetto. Ho vinto qualcosa altrove, ma quella in Brianza è stata un’annata decisamente significativa. Conservo un piacevole ricordo sia delle persone che ho frequentato sia del contesto». Tullio De Piccoli, 56 anni, in maglia Vismara ha ballato nel campionato 1989-90. Chiuso a 5 punti di media in 14’ di utilizzo a partita. Sei volte in doppia cifra per marcature, con il top a quota 20 in casa della Virtus Knorr Bologna. De Piccoli, in verità, a Cantù non doveva neppure venire. «Dalla Reyer, dove allora giocavo, Roma acquistò Gianolla, Barbiero e il sottoscritto. Premier da Milano doveva andare a Cantù nell’ambito dell’affare Antonello Riva, ma alla fine non se ne fece nulla (determinante il “no” espresso dalla tifoseria biancoblù, ndr) e successe così che Gianolla e io (in prestito) fummo dirottati a Cantù, mentre Barbiero e Premier raggiunsero Roma, all’ambizioso Messaggero».

Un passo indietro. Prima di venire da queste parti lei aveva indossato la maglia Reyer, allora Giomo, in quel gennaio del 1987 in cui all’Arsenale contro la capolista Virtus Bologna andò in scena una partita indimenticabile. «Sì, il match in cui io e Drazen Dalipagic realizzammo insieme 74 punti. “Praja” ne assicurò 70, io aggiunsi gli altri 4... Battute a parte, quella sua performance fu veramente qualcosa di incredibile. Di folle».

Spesso relegato a ruoli di cambio dei lunghi stranieri, a Cantù aveva davanti Bouie e Pessina, eppure seppe ritagliarsi i suoi spazi. «Ero il cambio naturale di Pessina, ma quell’anno il “Pes”, accidenti a lui, fece un campionato pazzesco, viaggiando a medie realizzative da americano. E così i miei spazi, giocoforza, si contraevano. Fu bravo Carlo (coach Recalcati, ndr) a ritagliarmi comunque delle opportunità in modo tale che anch’io vedessi il parquet non solo saltuariamente».

A proposito del Charly, quest’ultimo di lei ha più volte affermato che era l’uomo perfetto per quel tipo di team: difensore, lavoratore e uomo-squadra. Mister utilità, insomma, paragonandola non certo per il ruolo quanto per la disponibilità, la versatilità e la capacità di eseguire i compiti richiestigli, all’attuale Cerella. «Mi emoziono a sentire certe cose. Con Carlo la stima è reciproca. Professionale e umana. Anche se non devo certo essere io a dirlo, poiché dinnanzi a lui sono davvero piccino. Posso tuttavia riconoscere che quella nostra squadra giocava veramente bene. E attorno aveva il gran tifo degli Eagles, che ancora mi resta nitidamente in mente, con cori anche personalizzati».

Gran fisico, per ruolo e tipologia può essere accostato al Ricci dei nostri giorni alla Virtus Bologna, pur senza avere la stessa pericolosità perimetrale. «La verità è che quando Casalini e Cappellari si imbatterono in me in un campetto di periferia, pensarono di fare un investimento sulla mia stazza fisica, non certo sulla mia competenza tecnica... Dopodiché Peterson mi offrì una chance in prima squadra. Da tutti quei campioni che avevo per compagni appresi l’arte e i primi rudimenti, ma l’aspetto tecnico continuò a restare secondario nelle mie prestazioni».

Che fine ha poi fatto quel giocatore che dopo aver lasciato la Brianza era tra l’altro diventato capitano della Baker, la squadra nata dalla fusione tra Libertas Livorno e Pallacanestro Livorno, e che nel biennio 1995-97 vinse un paio di trofei con la Virtus Bologna? «Nel ’97 una toccata e fuga di un mese a Montecatini a sancire la conclusione della mia attività da professionista, prima di far ritorno a Mirano, nel Veneziano, dove proprio nell’anno in cui venni a Cantù avevo acquistato casa. E da lì non mi sono più mosso perché ho preferito che mia figlia Asia crescesse in uno stesso posto, senza essere costretta a seguire papà in giro per l’Italia. Ho frequentato un corso allenatori e cercato un’alternativa professionale. Dapprima come agente di commercio su vari fronti, mentre ora mi occupo di comunicazione web. Resto aggiornato sulla serie A anche se non la seguo più dal vivo. Adesso il punto di contatto tra me e la pallacanestro è rappresentato da Asia».

Perché, se è concesso chiederlo, che fa sua figlia? «Non certo perché abbia giocato a basket sino alla serie B prima di dedicarsi completamente agli studi, quanto piuttosto perché dopo un master in business e marketing è stata chiamata dall’Olimpia Milano per uno stage e recentemente è stata assunta proprio nel settore marketing. Il primo giorno di stage, al Forum, ha notato una vecchia foto della Simac 1984-85 nella quale comparivo anch’io. L’ha scattata, me l’ha inviata su WhatsApp, con una didascalia del tipo “papà, ma anche qui mi controlli? Sei davvero onnipresente...”».

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