Chi scrive, tra il '72 ed il '75 (più di 35 anni fa) è stato un campioncino del mezzofondo comasco. Tutto finì, come doveva essere - un gioco - con la crescita e gli impegni di studio e di lavoro. L'esercizio quotidiano, la fatica, il rispetto per il più forte, hanno sono serviti a molto, nei momenti più difficili. Condivido il pensiero del presidente Pennestrì, quando afferma che oggi manca totalmente la "cultura della sconfitta". Ed è proprio da lì che genitori, educatori, allenatori, amministratori pubblici devono ripartire.
Non è tollerabile che una madre o un padre "dopino" i figli, per riversare sugli stessi ambizioni mancate. Che li educhino all'imbroglio, pur di emergere, scapito della salute. Chiedo a tutti gli amici di allora di intervenire attraverso le pagine di questo nostro giornale, per sostenere quanto affermato da Antonio Pennestrì. Per il sogno di un mondo migliore.
Tullio Simioni
Como
Lei mi ha fatto tornare indietro al '67. Avevo 12 anni, sognavo di diventare un campione del remo e i Rokes in coppia con Lucio Dalla portarono a Sanremo un motivetto orecchiabile che oggi farebbe sorridere ma allora si piazzò al 4° posto, con un certo successo di vendite. Ricorda? S'intitolava «Bisogna saper perdere» e proseguiva così: ...«non sempre si può vincere... e allora cosa vuoi?». Era solo una canzonetta, ma in qualche modo profetica.
Nessuno avrebbe potuto prevedere la deriva di certi sport in cui l'agonismo non è più inteso come impegno a dare il meglio di sé, vada come vada, ma diventa necessità di vincere, costi quel che costi.
Siamo della vecchia scuola, quella che ci insegnò a vivere con misura il brivido della vittoria e ad elaborare con profitto la delusione della sconfitta. Momenti antitetici, ma funzionali entrambi alla formazione del carattere. Impegnarsi per vincere è degli atleti. Vincere ad ogni costo è dei furbi. E talvolta, se si scherza con la salute, anche dei masochisti. Facciamo nostro il suo appello.
Pier Angelo Marengo
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