Cara provincia
Domenica 22 Febbraio 2009
Il cattivo gusto sfila bipartisan con il Carnevale
Tutto questo ha un nome preciso: si chiama volgarità
Qualche giorno fa, lo ammetto, pensavo solo si trattasse di voci, di frasi dette tanto per dare aria ai denti, ma la Rete, i giornali e la radio mi hanno confermato che il Carnevale 2009 è pronto (anzi, per meglio dire, costretto) ad accogliere e far ballare schiere di "simpaticoni" agghindati come Rosa Bazzi, Olindo Romano, Alberto Stasi, Annamaria Franzoni... che altro aggiungere? Qualcuno, non lo escludo affatto, dirà che sono cambiati i tempi e che bisogna imparare a convivere anche con le stranezze di questa realtà, mentre altri, intanto, daranno la colpa ai media, come si fa di solito, per la «costante ed eccessiva spettacolarizzazione del crimine». Già me li sento. Tranquilli, comunque: non ho intenzione di rispolverare le camicie a quadrettoni che mi facevano diventare un rude cow-boy e nemmeno gli improbabili mantelli neri che mi trasformavano in Zorro o in Dracula a seconda dell’estro, sia chiaro. Il punto è un altro. Una parrucca, un pigiama e uno zoccolo di legno sporchi di pomodoro non mi fanno ridere per niente. Dirò di più: li trovo proprio di pessimo gusto. E dire che scrivo e leggo storie cattive, nere, maledette. Non so, forse sto diventando vecchio, chissà. Ma meglio "matusa" che idiota.
Paolo Franchini
L’affermazione del cattivo gusto è l’unica riforma bipartisan realizzata nella Seconda Repubblica, il gesto distintivo del terzo millennio, la nota identitaria della civiltà globale. Non c’è da stupirsi che le maschere d’un carnevale s’ispirino a tristi “star” della cronaca nera. La loro mediatizzazione le ha equiparate a qualunque personaggio di tragicommedie, serial o altro che la televisione proponga ed esalti. Sono facce di grande popolarità, di largo seguito d’ascolto, di riconoscibile tratto. Entrate quasi ogni giorno nelle nostre case, entrano anche nella scenografia delle feste di massa. E a nessuno importa che diano origine a una macabra allegria. Anzi, la si considera un fine da perseguire in omaggio all’audience, perché così suggerisce l’ormai imperante ghigno morboso con cui il pubblico segue lo scorrere del film (sì, è proprio come se fosse un film) di un’inchiesta dalle appassionanti puntate. Tutto questo ha un nome preciso, si chiama volgarità. Ma chi ne denunzia oggi il debordare oltre ogni accettabile argine, vien tacciato di pallosa vecchierìa, di superbia intellettuale, d’altezzoso distacco dalla vita reale. Il risultato è il permanere e il moltiplicarsi di bassezze così mediocri da sembrare artificiali. Invece non lo sono, caro Franchini: si rassegni, se le riesce. E mascheri la sua delusione.
Max Lodi
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