Ringrazio un lettore per avermi offerto l'occasione di ricordare un verso di una mia semplice poesia che scrissi a dodici anni o poco più: «…le campane riuniscono la gente / a mezzogiorno». Ricordo quel momento che ho rivissuto spesso col medesimo sentimento: nell'aria quel suono prende forma e vola con ali spiegate seguendo il vento e toccando ciascuno. È l'unico suono “umano” annoverabile fra i suoni “naturali” quali il canto degli uccelli e il frusciare delle foglie, che non disturba ma riconcilia, sia ascoltato tra il frastuono della città sia gustato fra i monti. La sua voce trova eco nel cuore, se solo sappiamo ascoltare.
Carla Arduini
Sappiamo ancora ascoltare? Mi conceda il pessimismo, cara amica. Il vociare della nostra contemporaneità è strepitante e rissoso, il silenzio una sonora assenza, il prestar orecchio a chi ci vorrebbe sussurrare qualcosa - anziché unirsi al gridare della massa - un esercizio dimenticato. O in gran parte dimenticato, se vogliamo indulgere alla speranza. Si parla, si parla molto e finanche in eccesso. Ci si parla poco, troppo poco, quasi niente. La differenza sta proprio in questo: parlare con termini e argomenti che galleggiano sulla superficie del grigiore e della mediocrità anziché parlare con il linguaggio e i temi che vengono dal cuore e arrivano al cuore. La poesia aiuta al cambiamento? Aiuta sì, ma la poesia è un genere trascurato. Non un genere letterario: un genere, se così posso dire, umano. Le campane non riuniscono (quasi) più nessuno: perché mancano le campane e manca chi desideri riunirsi al loro suono. Disimpegno e piattezza, pigrizia e mediocrità si spartiscono le colpe d'un tale disinteresse. Colpe emendabili? Forse sì, qualora ci si rendesse conto che le si sta commettendo. Ma si tratta d'una scommessa più che d'una speranza. C'è un poeta varesino d'adozione, Dino Azzalin, che insiste nel dolce azzardo di anteporre la seconda alla prima. Ha scritto nel suo più recente libro, “Guardie ai fuochi”: «Oh, se l'amore facesse luce all'esperienza. Se una preghiera valesse più di un teatro. Noi saremmo solo comparse, sullo sfondo di campi incolti, aperti. Con la brina sul viso, senza copione, finalmente liberi dietro le quinte». Questo è sperare, non è scommettere. E' sperare, come scrisse l'ebrea olandese Etty Hillesum assassinata dai nazisti, che Dio ci regali un piccolo verso al giorno: per scaldare il cuore, raffreddare l'infelicità, riaccendere la fiamma (ecco) dell'ascoltare, soffiar via le ceneri dell'indifferenza. Perché le parole sono affetti, e sanno riaccendere perfino quelli perduti.
Max Lodi
© RIPRODUZIONE RISERVATA