L'anniversario della morte di Antonio Gramsci - 27 aprile 1937 - è passato sotto silenzio. Incarcerato dal fascismo; reietto dai suoi stessi compagni; isolato dalla famiglia, tenuto in ostaggio dal regime sovietico, dopo la sua morte fu mistificato dalla doppiezza del proconsole di Stalin in Italia, quel Palmiro Togliatti che di Gramsci tradì il pensiero e l'opera. Di Gramsci, che raffrontò Lenin - altro grande mistificato dalla turpitudine staliniana - a Paolo di Tarso, possiamo dire con le parole che il rivoluzionario dell'antichità scrisse a Timoteo: «Evita le parole vuote e perverse che si propagheranno come cancrena. Molti hanno arrossito delle mie catene e tutti mi hanno abbandonato». Su noi - che fummo comunisti - grava la colpa: potevamo - nel libero Occidente - capire, ma non volemmo!
Ulderico Monti
Capita spesso, caro amico, di fallire la propria missione e di rimpiangere - a proposito di Paolo di Tarso - la mancata folgorazione sulla via di Damasco. Paolo, accecato dalla luce divina, venne curato e guarito dalla comunità cristiana di Anania. Non ci fu cura, né forse c'è mai stata guarigione, per la moltitudine comunista che accettò di fare di Gramsci un'icona senza scrostare la patina d'ipocrisia che le faceva velo. Spesso ai fondatori di qualunque impresa è negata la riconoscenza, talvolta perfino la verità. Ma non vorrei qui ripetere cose già note. La sua lettera mi suggerisce invece di ricordare che la memoria di Gramsci fu significativamente onorata, tra i tanti, dal fratello Carlo, che diede personale esempio di come fosse condivisa in famiglia un'integerrima etica. Carlo era capo del personale della Snia Viscosa e - come ha scritto Ibio Paolucci nel libro “Un luogo una storia” edito da Arterigere - venne estromesso dall'incarico per non aver voluto firmare le lettere di licenziamento d'un congruo numero di dipendenti. Rimasto senza occupazione ed avendolo saputo i vertici del Pci, Togliatti, Longo e Terracini gli offrirono di riordinare l'archivio lasciato al partito da Sibilla Aleramo. Carlo rifiutò, sospettando che l'incarico gli venisse proposto solo perché era il fratello di Antonio e per vivere s'adattò a gestire un distributore di benzina. Ma era ormai anziano, e non resistette a lungo. Solo a quel punto si convinse ad accogliere l'invito a collaborare con l'Unità, il giornale fondato dal fratello nel '24. In cambio d'un modesto stipendio, fece il pubblicitario. Visse sino alla morte, avvenuta nel maggio del '68, in un monolocale. Ma ci ha lasciato un esempio di coerenza morale grande come un palazzo.
Max Lodi
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