Carla e Piero, amore cieco
«La diversità ci va stretta»

Lei non vede dalla nascita, lui ha perso la vista da ragazzo: «Nella vita abbiamo imparato che l’autonomia è tutto»

«Un cieco, come tutte le persone all’inizio della loro vita, è un foglio bianco: se va in mano a un artista diventa un capolavoro, altrimenti…”» Carla e Piero hanno un sorriso che sembra un’opera d’arte. Ma se bussi alla loro porta, non è la loro gentilezza la prima cosa che incontri, ma l’imponente figura nera di una meravigliosa flat coated retriever. Sharim si presenta sull’uscio scodinzolando e ti invita a entrare prendendoti delicatamente la mano in bocca, prima di affidarti all’ospitalità dei suoi padroni.

Lei è Carla Panizza. Madre, nonna, pensionata e volontaria: va nelle scuole a raccontare che la diversità non è un male e non deve mai diventare uno stigma. Lui è Piero Alpino. Marito e, ovviamente, padre e nonno: «Le posso offrire un caffè?». Carla e Piero girano per casa veloci e sicuri nonostante lei sia cieca dalla nascita e lui abbia perso del tutto la vista da ragazzo. «Il buio non esiste» attacca Carla, decisa a mandare in frantumi non solo i luoghi comuni sulla cecità, ma anche l’imbarazzo di chi per tutta la durata della chiacchierata si augura di non salutare con un: «Ci vediamo».

Il disagio della diversità

«La cosa peggiore di tutte? Non è la curiosità, non sono le domande, né tantomeno il desiderio di sapere e di conoscere. La cosa peggiore è il silenzio imbarazzato, perché per noi, se una persona sta zitta, non esiste comunicazione. C’è chi si sente spesso a disagio con noi per timore di fare una brutta figura, ma la figura peggiore è ignorarci e passare via dritti». E allora, per quasi due ore, si parla senza filtri di cecità, solidarietà, educazione, cani guida, genitorialità, scuola.

«Innanzitutto c’è una grande differenza tra una persona nata cieca, come me, e chi lo è diventato - dice la signora Panizza - Un cieco dalla nascita parte da zero. Chi perde la vista deve abituarsi a una situazione nuova, ed è più difficile anche psicologicamente». Il primo passo, essenziale, è accettare «il disagio della diversità». Ma come? «Noi - dice riferendosi a se stessa e al marito - veniamo da un periodo in cui i non vedenti ricevevano un’istruzione all’Istituto Ciechi di Milano. E, devo dire, secondo me era una strada migliore. Oggi, spesso, l’integrazione e l’inclusione a tutti i costi nella scuola pubblica rischiano di creare enormi dislivelli». E poi ci sono le famiglie: «Molte sono troppo protettive e le eccessive paure impediscono ai ragazzi di superare gli ostacoli, ma ovviamente questa considerazione vale anche per chi non è cieco». Originaria di Mandello del Lario, Carla, uscita dall’Istituto Ciechi, decide di trasferirsi a Como: «In un piccolo paese io ero, per tutti, la diversa. E questo mi andava stretto. La mia famiglia mi ha dato fiducia e così a 20 anni mi sono trasferita a Como e ho vissuto il mio Sessantotto, anche se era il ‘69» commenta ridendo. «A quell’età ho preso il mio primo cane: ormai festeggio le nozze d’oro con i cani guida».

I cani guida

Sharim si sente chiamata in causa: esce da sotto il tavolo con un cerchio di gomma in bocca e si avvicina sperando di strappare qualche minuto di gioco. «È cresciuta in una parrocchia - spiega Carla Panizza, mentre accarezza la sua amica - Si chiamava Charlie, ma le ho cambiato nome: non poteva chiamarsi come me». Altra risata. Contagiosa. «Venga a vedere quanto caffè vuole: questa è una di quelle cose che ancora non ho imparato a fare» scherza dalla cucina Piero, mentre Sharim non si perde un movimento dei suoi padroni. «È il mio quinto cane - prosegue Carla - Quando sono per strada lei è i miei occhi ed è lei a vigilare sulla mia sicurezza: evita che finisca in un buco, se c’è un gradino da superare me lo fa capire, se c’è un ostacolo me lo fa evitare». Come quando, in Varesina, il solito automobilista apparentemente “normodotato”, eccezion fatta per il concetto di altruismo, ha parcheggiato sul marciapiede: «Sharim si è bloccata e non capivo perché. Allora ho preso il bastone bianco e ho compreso che c’era quest’auto. Ad alta voce ho insultato chi l’aveva lasciata lì, senza sapere che in realtà era presente. Si dev’essere vergognato un mondo… e ben gli sta». Nuova risata. Contagiosa, pure questa. «Alla fine mi ha aiutato lui ad aggirare l’ostacolo. Il cane serve non solo per evitare i pericoli, ma anche per rompere le barriere con gli altri. Io con Sharim parlo. Se arriviamo a un semaforo senza avviso sonoro dico ad alta voce: “avvisami quando è verde”. Di solito, i giovani in questo sono fenomenali, c’è sempre qualcuno nelle vicinanze che mi dice: “Glielo dico io, signora”. E il gioco è fatto».

«I rumori disorientano»

La cosa che più detestano Carla e Piero quando sono in giro? «I rumori. Ci disorientano. E poi le piazze troppo grandi: perdiamo i punti di riferimento».

«Il buio non esiste» ripete Carla. Che spiega: «Io percepisco la luce del sole». Racconta Piero: «Un giorno ho chiesto: “Carla, com’è il tempo fuori”. E lei: “C’è tanta luce, ci dev’essere un bel sole”. Allora mi sono messo le scarpe basse. Sono uscito e ho infilato il piede in 15 centimetri di neve». Risata. Contagio.

Ai coniugi Alpino piace l’arte: «Io ho un’amica così brava a raccontarmi quel che vede che è come se i suoi fossero anche i miei occhi - spiega Carla - è meraviglioso quando trovi persone che riescono a farti vedere quello che vedono loro. Con l’Unione spesso organizziamo viaggi. E se trovi guide brave, riesci ad apprezzare quel che ti circonda». Aneddoto di Piero: «Una volta, in Toscana, la guida ha fermato uno di quelli che vendono souvenir: il Duomo in miniatura, la torre in miniatura… ce li ha portati, ce li ha dati in mano e con quelli ha iniziato a descrivere ogni cosa». Ma la capacità di vedere, per un cieco, va coltivata: «Se fin da piccolo impari a lavorare con le descrizioni dl paesaggio allora riesci a costruirti le tue immagini».

Vedere con il tatto

La tecnologia ha fatto il resto: «Grazie alle stampanti 3D, oggi, riusciamo ad avere qualunque cosa in miniatura e questo ci permette di avere un’idea di tutto». Il tatto, surrogato della vista. Anche nel rapporto con gli altri? «Per me - risponde Carla - non è così importante toccare il viso di una persona. Non mi pongo il problema del colore della pelle, di sapere se ha i capelli corti o lunghi o se indossa gli orecchini. A me di una persona colpisce il tono della voce. E la gentilezza. È tutto ciò che conta». Lo ha spiegato anche a un bambino che, nel corso di un incontro a scuola, le aveva chiesto: «Ma anche tuo marito è cieco? E allora come avete fatto a capire che vi piacevate?». Risposta di Carla: «Se tu hai una bella compagna, ma lei non gioca con te e non ti presta le cose, ti piace?». E il bimbo: «No, perché è antipatica». Appunto

Vita da genitori

Non ci sono domande tabù: «Voi avete avuto due figli. Come avete fatto?». Con la solita naturalezza Carla risponde: «Ci abbiamo pensato molto, prima. Due disabilità non dimezzano i problemi, anzi li raddoppiano. I miei suoceri abitavano vicini, sapevamo di poter contare sul loro aiuto, e allora abbiamo deciso di provare. Ci siamo improvvisati, un po’ come tutti i genitori. Abbiamo trovato i nostri espedienti: mai in giro con i bimbi liberi per strada, anche quando erano con i nonni. Quando li imboccavamo ogni tanto si impiastricciavano, ma lo abbiamo fatto diventare un gioco, per sentirli in casa abbiamo attaccato loro un campanello ai pantaloni, diverso da quello del cane». Nuova risata. «Era divertente quando, da piccoli, ci facevano da occhi. Aspettavamo il bus e quando arrivava chiedevo: “Che numero è?”. Ma i numeri ancora non li conoscevano e allora li descrivevano: “Quello con il fischietto con la coda in su” il 6. “Quello con la pistola” il 7. Al supermercato, poi, si divertivano a trovare loro le cose. Come quando ho chiesto a mio figlio: “Mi prendi il tonno?”. Lui è tornato e mi ha detto: “Mamma, l’ho trovato. Ma vuoi quello di pesce o di mucca?». Risata collettiva.

Diventare autonomi

L’autonomia è un traguardo. «All’Unione lavoriamo molto soprattutto con gli ipovedenti o con chi ha perso da poco la vista. Cerchiamo di far capire che si può fare quasi tutto: ad esempio io non saprò cucire bene, ma i bottoni me li attacco». E il racconto si fa appello: «Oggi a un bimbo ipovedente non si insegna il braille, ma si utilizzano gli strumenti tecnologici per consentirgli di vedere. È sbagliato: imparare il braille gli darebbe più autonomia. Devono conquistare fiducia in sé e liberarsi la schiavitù del senso comandone». Scusi? «Il senso comandone… la vista, ovviamente». Risata. Grazie Carla e Piero.

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