Don Roberto, la memoria tradita

Un anno fa Como si è risvegliata con la tragica notizia dell’omicidio di don Roberto Malgesini. L’atto di accusa dell’amico Luigino Nessi

COMO

Rivolgere a Luigino Nessi un banale “come stai?” è un po’ andare a caccia di guai. Nella migliore delle ipotesi risponderà che proprio bene non si può stare, «con tutta la povera gente che c’è in giro». Per dirla con il Che: tutti dovremmo imparare a sentire nel più profondo del nostro cuore qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque angolo del mondo.

E però, dietro all’apparenza di questo pessimismo cosmico che è in realtà ottimismo cosmico, Luigi Nessi – insieme ai tanti (o pochi) volontari che in una città non sempre amica regalano ancora il proprio tempo agli ultimi – rimane uno dei migliori testimoni di quel cristianesimo di lotta e di strada di cui è stato interprete don Roberto Malgesini, del quale ricorre domani un anniversario che nessuno avrebbe voluto mai celebrare.

Del resto Luigi Nessi quel giorno c’era, Luigino c’è sempre stato: c’era ai tempi di don Renzo Beretta, quando in tanti giurarono “mai più”, c’era ai tempi del primo, disperato esodo albanese, ai tempi di quello kosovaro alle porte del nuovo millennio, e ancora c’era nei mesi caldi degli “oromo” etiopi accampati nel parco della stazione di San Giovanni. C’era e c’è da sempre, Luigino, con le sue idee, la sua grinta e il suo modo di interpretare il concetto di carità.

«Vidi don Roberto per l’ultima volta la domenica mattina, mentre insieme distribuivamo le colazioni... Ricordo che accanto gli passò l’uomo che l’avrebbe poi ucciso. Gli rivolse una brutta parola, poi tornò sui suoi passi e chiese in modo un po’ brusco di avere il suo caffè. Don Roberto glielo porse, sorridendo come faceva sempre».

Settembre 2020, settembre 2021: cos’è rimasto di don Roberto un anno dopo? Che lezione s’è tratta dal suo sacrificio? Quanto ci manca, se davvero ci manca?

«La verità, e lo dico con grande tristezza, è che la sua lezione non è stata recepita, almeno non fino in fondo – dice Nessi –. Certo, rimane l’impegno dei volontari e delle donne che ogni mattina distribuiscono le colazioni a San Rocco come faceva lui, ma per il resto la sensazione è che la città sia rimasta la stessa di prima. Un esempio: l’estate tra poco cederà il passo all’autunno, e di un dormitorio pubblico per i mesi più freddi ancora non si parla, come se poi non ne servisse uno tutto l’anno, o come se non servissero anche un centro diurno e un servizio serio di sostegno e di accompagnamento per tutti questi disperati che vivono in condizioni estreme, eternamente ai limiti. Ecco, questa mancanza di sensibilità è il più grande rammarico. Personalmente speravo, mi illudevo che il sacrificio di don Roberto fosse valso quantomeno ad assumere decisioni più drastiche, a operare scelte di campo finalmente coraggiose, definitive, e non soltanto per i tanti migranti extracomunitari che vivono per strada. La mia impressione è che la situazione sia in generale peggiorata, anche in conseguenza della pandemia, e che il numero di persone non soltanto straniere che versano in uno stato di necessità reale sia cresciuto. Che ricordo serbo di don Roberto? Mi capita spesso di pensarlo, di rivederlo per esempio tra le mura del carcere dove prestava un’importante opera di sostegno. Quando entrava in sala colloqui, la sua presenza e il suo sorriso bastavano a illuminarci tutti. In fondo il Vangelo è quello che viveva lui, il Vangelo della chiesa dei poveri, il vangelo della “chiesa del grembiule”, come la chiamava don Tonino Bello, la chiesa che pulisce le ferite del corpo e dell’anima. Quella per la quale un anno dopo sì: c’è ancora bisogno dell’aiuto di tutti».
S. Fer.

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