Cronaca / Como città
Lunedì 29 Ottobre 2018
Le figlie dannate di Como
Ecco le donne cancellate
DIOGENE / Storie e voci delle comasche rinchiuse nel manicomio. Il progetto fotografico di Gin Angri per riportare l’archivio in città
Ogni martedì in edicola con La Provincia c’è Diogene, il settimanale delle storie, del volontariato, delle buone notizie.
«Ci si può innamorare delle parole d’amore anche se dirette a un’altra». Eloisa Sadun, il 25 settembre di ottant’anni fa, prese un foglio e scrisse pensando a Carlì. Rinchiusa all’interno del San Martino, si domandava perché non si facesse vivo con lei. «Può scrivermi col suo nome, con altro, come vuole. Non sarà proprio lui a temere di parlare d’amore per me?». In attesa, rimaneva solo l’immaginazione, ancora non annichilita da mesi di elettroshock e insulina. La lettera non fu mai spedita e nessuno la ricevette mai, fermata dalle maglie strettissime della censura. Restò, quindi, una speranza morta, una richiesta d’amore mai realizzata.
Una sofferenza dell’animo, certo non la più crudele cui furono sottoposte figlie, madri, mogli, comasche e non, finite in manicomio con lo stigma della devianza. Una femminilità manifestata attraverso misure antropometriche, descrizioni fisiche, anamnesi affidate a diari, lettere e relazioni mediche.
«Mentecatte, folli, malate»
Figlie dannate dei loro tempi, rimasero murate sulla collina comasca e le loro storie sconosciute al territorio. Al Broletto, nel salotto buono di Como, grazie alle foto di Gin Angri queste donne sono diventate protagoniste. “Donne Cancellate” è la mostra, a cura dell’associazione Oltre il Giardino, nata per restituire voce e umanità alle ricoverate nella struttura cittadina dal 1882 al 1948. Al momento, le loro cartelle cliniche sono depositate in un archivio a Lodi e, con quest’esposizione, gli organizzatori vorrebbero venissero riportate a Como. In questo modo, si riuscirebbe a ridare la giusta dignità a chi fu marginalizzata ed estromessa dalla società, togliendo dalle loro foto la polvere del tempo.
Mentecatte, folli, malate di mente. Le parole utilizzate per classificare le donne, secondo i periodi storici, erano spesso scelte pure sulla base del loro rapporto con gli uomini, senza dimenticare la condizione economica: chi, oltre a essere povera, mostrava una certa indipendenza e aggressività, era subito guardata con sospetto.
Di Enrica, per esempio, le cartelle cliniche sottolineano la voglia di protestare, picchiare le ammalate e bestemmiare. La sua rabbia è rivolta, in particolare, verso i genitori, colpevoli d’averla messa al mondo con un grumo di malessere tanto forte dentro l’anima. Un carattere irascibile la condanna a essere legata al letto, «per evitare scandalo alle altre ammalate». Non solo, renderla innocua era una pratica diffusa, tanto da ricevere apprezzamenti. Quando si svegliava dal torpore medico, però, la fame era parecchia. I medici, infatti, annotavano: «Mangia molto, e se non è accontentata bestemmia come un turco».
La follia, inoltre, si poteva misurare: lo studioso Cesare Lombroso, in collaborazione con lo storico e scrittore Guglielmo Ferrero, sostenevano esistessero tre tipi di donna: delinquente, prostituta e normale. Ovviamente, tutte inferiori all’uomo, come dimostra, era la loro teoria, il peso minore del cervello femminile. Durante il periodo fascista, i manicomi accentuano la loro dimensione di controllo. In questa fase storica ci finiscono anche quelle accusate di essere, fra le altre cose, «loquaci, disobbedienti, irrispettose, smorfiose».
Se una cittadina, spesso in condizioni di miseria, non riusciva a svolgere in maniera esemplare i ruoli di donna di casa, lavoratrice dei campi, moglie e madre, rischiava d’essere internata perché non rispecchiava un prototipo esemplare.
Maria Giussani è rinchiusa, la prima volta, a trentadue anni, nel 1933, per morire quattro anni dopo. La colpa? Essere depressa e, di conseguenza, non mangiare. Lo testimonia l’esame psichico, dove veniva annotato il peso di 38 chili.
Immersa nel suo male di vivere, scrisse una lettera al marito Angelo reo, secondo Maria, di non volerla incontrare: «Mi fai sempre quella figura di non ricevermi, io non so come fare per vederti. Se per caso ti ho offeso dimmelo che ti domando perdono. Appena ricevi, fammi il piacere di dirmi quando devo venire a trovarti».
E, infine, un appello diretto ai “signori della censura”: «A voi che leggete queste mie misere parole, fatemi il piacere di mandarmi la risposta». Purtroppo, la missiva non fu mai recapitata.
Angela Martegani, originaria della Svizzera tedesca, fu, invece, ricoverata il 29 aprile del 1940 per “psicosi istero epilettica” a 19 anni. A novembre, uscì perché dichiara guarita. «Sabato sarò a Como – le scrive felice il fratello in una lettera – se faccio un po’ presto, ti vengo a prendere e andiamo a comprare un soprabito e poi ti farò cucire qualche vestito».
Eloisia, sposata con Mario Luzatto e rinchiusa poco dopo la fine del fascismo, invece, fu “ospite” anche dell’ospedale neuropsichiatrico cantonale di Mendrisio. Restò sette mesi, sufficienti per sorbirsi una cura a base di elettrochoc e insulina per cancellare quella forma di esaurimento nervoso comparsa nella sua vita, per la prima volta, a quattordici anni. Nonostante le difficoltà, riuscì a laurearsi in scienze economiche e commerciali. Il ricovero avvenne dopo il parto. La storia clinica pone l’accento sulla presunta irritabilità, instabilità del carattere, insonnia e umore depresso. Inoltre, sottolinea come la sua famiglia fosse soggetta a debolezze mentali. «Per queste sintomatologie – scrivono dal San Martino – fu ricoverata in questa casa di cura».
Iniezioni di sangue malarico
Liliana Frigerio, invece, nata ad Albese con Cassano, fece dentro e fuori dall’ospedale psichiatrico. La prima volta ci finì il 30 aprile 1943 per poi uscire il primo giugno dello stesso anno. Due settimane dopo fu ancora rinchiusa per lasciarlo l’11 settembre. Un tragico curriculum di sofferenza per una ragazzina solo tredicenne, per la quale furono autorizzate iniezioni di sangue malarico, così da “buttar fuori” il demone, cardiazol, insulinica ed elettrochoc. Orfana di padre, viene descritta come «laboriosa, intelligente, buona e socievole». Nonostante tutti questi complimenti, non ci si riesce a spiegare come mai «questa forma morbosa» non cenni a diminuire.
Queste sono solo alcune storie raccontate dalle foto, esposte fino al 18 novembre. Ma qual è il senso di questa ricerca? «La memoria richiama giustizia e il senso più umano e civile di una carezza riparatrice verso un “popolo” di dimenticati– scrive Mauro Fogliaresi, poeta e fondatore di Oltre il giardino - Le parole cancellate riprendono vita e nuovo inchiostro: sono le immagini di questa toccante mostra che vuole ridare dignità e memoria a soprusi, ingiustizie, scandalose dimenticanze». L’obiettivo finale degli organizzatori è riportare l’archivio nei padiglioni del San Martino. Perché su quella collina va conservato il ricordo, in quei luoghi dove tantissime persone, definite secondo i periodi storici mentecatti, folli, alienate, pazze, sono rimaste per anni. Così, forse solo così, Angiolina, Eloisia, Maria, Enrica, Liliana e le altre donne cancellate potranno riposare sulla collina, finalmente in pace.
© RIPRODUZIONE RISERVATA