«Mio papà portato in ospedale
Lo hanno dimesso con il Covid»

In pronto soccorso dopo una caduta. La figlia: «Non l’hanno ricoverato. Pochi giorni dopo è morto»

«L’ultima volta che ho visto mio papà vivo era il 7 marzo. Mi ha salutato sulla porta di Villa Celesia: “Vieni a trovarmi presto”. Dentro di me mi sono detta: non lo rivedrò mai più». Più che una sensazione, quella di Elena Gabbi, figlia di Luciano Gabbi, era paura del virus che stava iniziando proprio in quei giorni a terrorizzare l’Italia. Un mese più tardi anche suo padre è stato contagiato e, dopo pochi giorni, è morto.

Il racconto della figlia

Il racconto di Elena inizia dalla fine di marzo, ovvero dopo tre settimana di contatti con il padre solo via telefono.

«Il 30 marzo - racconta, con una precisione dovuta al fatto che ha tenuto un diario su questi due mesi tragici - vengo a sapere che la vicina di camera di mio papà si è ammalata di Covid. A dirmelo è la nipote della signora, che conosco. Chiamo, ovviamente preoccupata, la struttura. E la prima reazione è stata: “lei come fa a saperlo?”. Mi tranquillizzano che mio padre sta bene, ma io inizio a preoccuparmi».

Due giorni dopo la preoccupazione ha motivo di farsi ancora maggiore: «Lo sento al telefono e mi dice “ho un po’ di tosse… strano, è vent’anni che non ho la tosse”. E io comincio a temere che possa essersi malato anche lui». Un timore legato al fatto che il signor Luciano sembra più confuso del solito. «Mi chiamano il 4 aprile e mi dicono che è caduto a terra, forse perché aveva due linee di febbre. E che hanno chiamato un’ambulanza. Io chiedo: “Perché l’ambulanza?”. “Perché aveva un piede girato” spiegano».

Luciano Gabbi viene portato al Sant’Anna. Dove rimane tutto il giorno: «Chiamo, e molto gentilmente mi spiegano la situazione. Poi, verso sera, mi richiamano loro per relazionarmi sul fatto che la lastra all’anca (ma a me avevano detto il piede) non ha nulla di rotto. Gli hanno anche fatto una lastra ai polmoni da cui non è emerso niente. “È tranquillo…” mi dicono. Alle 11 di sera nuovo contatto: “Non è Covid perché non ha nessuno dei sintomi, solo tre linee di febbre”. Infine alle due di venerdì notte decidono: lo dimettiamo perché sta bene, lo rimandiamo in struttura alle cure del medico curante».

Ma Villa Celesia è una casa albergo, non una Rsa, e di medici non ce ne sono. «Il giorno dopo chiamo il suo medico che mi risponde, anche se è sabato, ma mi dice che no, non può andarlo a trovare perché non ha i dispositivi di protezione. Allora chiamo la guardia medica e pure loro mi dicono che no, assolutamente non si può».

Nel frattempo le condizioni del signor Luciano peggiorano: «Era disidratato, agitato, gridava dal dolore. Io impazzivo da casa a saperlo così. Hanno provato a passarmelo per telefono ma si lamentava e basta». Lunedì la febbre supera i 38. Il tampone è positivo. Viene portato al Valduce: polmonite bilaterale. «L’ultima immagine di mio papà è una foto che mi hanno scattato gli infermieri del Valduce. Il 20 aprile è morto».

Chi era Luciano

Socio per 40 anni della Cannottieri Lario, Luciano Gabbi era molto conosciuto in città: «Era un grossista di alimentari, aveva il deposito a Lora. Riforniva tutti i negozi di alimentari di Como» racconta la figlia. «Ha sciato fino a 80 anni. Otto anni fa è morta la mamma e lui viveva nell’appartamento accanto a me, ma due anni e mezzo fa ha chiesto di poter andare a Villa Celesia» dove per il primo anno è rimasto con un amico della Canottieri, con il quale per mesi quasi ogni giorno prendeva l’auto e andava in viale Puecher a giocare a carte.

«Stava bene» dice la figlia. Poi è arrivato il maledetto virus.

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