Potere e ambizione
Così è cambiato
il ragazzo prodigio

Il ritratto. II primi passi nella “cantera” democristiana. Poi assessore con Botta, presidente Acsm e sindaco

L’arresto, al di là del dramma umano, sembra l’inevitabile, per quanto crudele, metaforico epilogo di quella che non è solo un’esperienza politica e umana ma anche l’epopea di un certo centrodestra comasco che non c’è più. Un timbro messo lì con svogliatezza a una pratica destinata all’archivio.

Il simbolico ingresso

Eppure chi l’avrebbe detto 14 anni fa, in quel 2002 in cui Stefano Bruni saliva per la prima volta da sindaco lo scalone d’onore di palazzo Cernezzi,che sarebbe finita così. Quell’ascesa, quei piccoli passi per un uomo, apparivano come un grande piccolo passo per un sistema di potere che, partendo dall’avvento di Roberto Formigoni al Pirellone in un 1995 in cui la Lombardia post Tangentopoli sembrava colorarsi di un timido rosso, stava toccando il proprio apogeo. Incredibile la stagione del centrodestra nella Seconda Repubblica. Una giovane signora di una bellezza troppo appariscente per non essere figlia anche di ritocchini, poi precocemente sfiorita. Quasi un ritratto di Dorian Gray appeso capovolto. Stefano Bruni di quella stagione era il primo attore comasco, assieme a tanti altri usciti di scena: su tutti gli “esagerati” Giorgio Pozzi e Gianluca Rinaldin, protagonisti di una stagione tanto breve quanto punteggiata da continui fuochi d’artificio. E chissà se non siano stati quelli, ad abbagliare il Bruni dal profilo oratoriano, finendo per perderlo.

Il centrodestra, dopo la conquista del Municipio di Como con il compianto Alberto Botta, aveva cambiato pelle. Una pelle traslucida, color bronzo lampada, come appariva l’ex ragazzo proveniente dalla “cantera” di una declinante Dc, la stessa fucina che ha forgiato il suo successore, Mario Lucini, e il suo rivale nel 2007, Luca Gaffuri, con buona pace di coloro che sono ancora convinti di non morire scudocrociati. I tre, poi, con la diaspora della balena fiocinata dalla caduta del Muro (quello di Berlino, eh. Dell’altro riparleremo) e dalle toghe di Mani Pulite, presero strade diverse, salvo poi ritrovarsi fieri avversari nell’arena di palazzo Cernezzi.

Pensare che, in quel 2002, c’era quasi un’attesa messianica del Bruni con la fascia tricolore. Il compianto Alberto Botta era uscito sfiancato da un secondo mandato simile più a una tonnara che non a un’amministrazione comunale. Forse perché l’ex presidente del Coni e primo sindaco della Seconda Repubblica comasca, aveva rigettato logiche di potere che non gli erano proprie. Fatto sta che gli ultimi anni furono un piccolo calvario, con tanti a toccarsi di gomito, che tanto adesso arriva Bruni a dare la svolta.

Lui era ancora quel ragazzone un po’ timido e tenace che lo stesso Botta aveva imbarcato nella sua giunta. La metamorfosi del potere non l’aveva ancora ghermito. E alla domanda del solito cronista con la memoria viva, sul cortocircuito tra il suo predecessore e i partiti della maggioranza che lo sosteneva, aveva risposto con la matita rossa in pugno: non erano i partiti ma il consiglio comunale a fare danni. Mai avrebbe immaginato, Stefano Bruni, che il medesimo meccanismo avrebbe stritolato anche lui.

Il secondo mandato (sembra una maledizione) infatti fu una fotocopia, in peggio, di quello bottiano. Ex amici di buon (forse troppo) appetito che abbandonano una nave ormai fallata dalle Waterloo su Ticosa e lungolago, un partito che non è più il tuo, interessi che non convergono come prima. E la fine fu quella di un Dorando Petri a cui nessuno sarebbe stato più disposto a dare un sostegno, caso mai uno sgambetto. Bruni, peraltro, di fronte a questo sfacelo, aveva sempre opposto il profilo sfingeo di chi ha ben altro a cui pensare che non le beghe dell’amministrare quotidiano. Sembrava non curarsi di loro, guardava e passava. Poi è passato davvero. Inchiodato a quel grottesco muro sul lago che urlava più di un’antologica di Munch.

Un uno-due micidiale quello che ha mandato ko Bruni e il centrodestra che fu. Il peggior fallimento dei tanti fallimenti della storia dell’ex Ticosa, con tanto di manifesti celebranti un trionfo effimero (sai che risate nei visceri dell’area maledetta) e il disastro lungolago con tutti i suoi perché senza risposta.

Il primo mandato di Bruni era passato via con il cancellare i progetti aperti dall’inviso predecessore e, soprattutto, con un piano regolatore che ha cambiato il volto di molte parti della città. Per tentare di sbarrarne la strada verso il bis, nel 2007, il centrosinistra aveva schierato il meglio fico di quel bigoncio, Luca Gaffuri. Ma l’impresa appariva disperata perché, alla epoca, il sistema di potere formigon-bruniano era nell’empireo. Un potere ostentato e brutale in stile Seconda Repubblica, così lontano dai felpati e sottili (ma molto acuminati) stiletti democristiani.

Poi i titoli di coda. E Bruni che finisce avvolto in questa nubolosa di affari, bond posticci, il passaggio all’Ncd sulla scia dei guai giudiziari del suo mentore decinante. Qualche apparizione dietro le quinte della politica di un centrodestra alle prese con un cambio di pelle. E nulla più. Fino a ieri.

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