«Potete chiamarmi
pure assassino
Non chiedo scusa»

Il killer Mahmoudi rivendica l’omicidio del sacerdote E davanti alla corte d’Assise dice: «Era un peccatore»

Aveva già preparato la borsa con gli effetti personale per il carcere, Ridha Mahmoudi. Lo aveva fatto il giorno prima di uscire dalla stanza dov’era ospite della Caritas, e dirigersi armato di coltello per l’arrosto con una lama lunga 22 centimetri in piazza San Rocco a Como. Un coltello acquistato il 30 luglio precedente al Bennet di Tavernola, assieme a un melone e due cucchiai di legno (ritrovati nella sua stanza a Sant’Orsola).

Nella prima udienza del processo per l’omicidio di don Roberto Malgesini due sono i passaggi cruciali: da un lato il fatto che il pubblico ministero Massimo Astori è riuscito a mostrare fin da subito la cornice della premeditazione (che, se riconosciuta, farebbe scattare inevitabilmente l’ergastolo) e dall’altro la corte d’Assise ha potuto sentire dalla viva voce dell’assassino una piena confessione. Di più: una rivendicazione: «Io non chiederò mai scusa, perché lui è un peccatore...».

Il prologo della prima giornata di dibattimento è movimentato. L’avvocato d’ufficio, Davide Giudici, dopo non essere stato ricevuto in carcere dal suo cliente pochi giorni prima, si sente opporre un nuovo rifiuto: «Io voglio l’avvocato Taormina» urla dalle stanze delle celle Mahmoudi. Per inciso, l’avvocato Carlo Taormina aveva già avuto modo di rifiutare il mandato. E un’altra avvocatessa di Monza aveva rinunciato, dopo aver provato a rapportarsi con Mahmoudi. E così il cerino è rimasto in mano al penalista comasco che, con senso di responsabilità e una non comune dose di serietà, ha deciso di assistere al meglio un imputato che rifiuta di essere difeso con le poche carte a disposizione. La prima di queste è la richiesta di perizia psichiatrica e di perizia per valutare l’effettiva capacità di Mahmoudi a restare a processo. La corte, a fronte dell’assenza di documenti o elementi che potessero far balenare sospetti sull’effettiva capacità di intendere e di volere dell’imputato, si è riservata: «Decideremo alla luce di ciò che emergerà durante il dibattimento». Il primo a parlare è il testimone oculare del delitto, il vicino di casa che rientrava dalla passeggiata con il cane, al quale Mahmoudi si rivolge con aria di sfida: «Puoi chiamarmi assassino, grazie». Quindi un volontario che conosce l’omicida e che quel mattino lo ha incontrato, subito dopo il delitto, mentre andava verso i carabinieri per costituirsi. Poi (forse la testimonianza più assurda, per smemoratezza) il dipendente della Croce Rossa chiamato a medicare Mahmoudi in caserma dai carabinieri, quella mattina. Un anno dopo è riuscito a dimenticarsi quanto raccontato all’epoca, ovvero che una persona che stava soccorrendo gli ha detto: «Ho ucciso il prete... l’ho ucciso a coltellate». («Ma come fa a essersi dimenticato di un fatto simile?» lo rimproverano giudice e pubblico ministero).

Il resto dell’udienza si è giocato tutto sulla conferma che l’assassino fosse proprio Mahmoudi e sulla premeditazione. Così l’ispettore della squadra mobile Peluso: «Mahmoudi dormiva presso la parrocchia di Sant’Orsola: gli avevano dato un piccolo locale alle spalle dell’altare. All’interno c’era un tavolino, alcuni oggetti sacri e una borsa con all’interno degli effetti personali che lui ci ha detto di aver già preparato per il carcere». E poi c’è la questione del coltello: la polizia ha recuperato lo scontrino del 30 luglio 2020 quando Mahmoudi, al Bennet di Tavernola, lo ha comprato. Quasi due mesi prima del delitto. E poi ci sono i manoscritti, sequestrati all’imputato, in cui di fatto preannuncia che qualcosa avrebbe fatto. Che con qualcuno se la sarebbe presa (pur senza mai parlare della volontà di uccidere).

L’udienza procede veloce. A metà pomeriggio l’avvocato Giudici si gira verso il suo cliente e chiede: «Vuole dire qualcosa alla corte?». Lui esce dalla gabbia, si siede con fare teatrale davanti ai giudici e attacca un monologo sconclusionato in cui dice di essere vittima di «complotti», che a suo carico è stata tesa una «trappola» per farlo tornare in Tunisia, che la sua stessa ambasciata ha partecipato al complotto «con i soldi sporchi del popolo tunisino», di aver ricevuto minacce in carcere a Como: «Hanno cercato di avvelenarmi, ma l’ho scoperto subito». E quando la presidente lo invita a parlare delle accuse e a non divagare, eccolo rivendicare: «Io non chiederò mai scuse, perché lui è un peccatore».

Si torna in aula tra una settimana. Entro fine ottobre, salvo perizia, la sentenza.

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