Quello stile sconosciuto
di un passato reinventato

Lo storico dell'arte Barral I Altet ricostruisce in un saggio provocatorio
le radici culturali e storiche di un filone artistico diventato molto di moda

«L’arte romanica è alla moda. Lo è già da diversi decenni. Corrisponde ad un gusto per l’arte medievale, considerata come il riflesso di una religiosità essenziale ed austera, che si è affermato fin dalla metà del Novecento». Con queste parole Xavier Barral I Altet, professore emerito di Storia dell’arte medievale presso l’Università di Rennes (Francia), introduce il suo libro che intitola provocatoriamente "Contro l’arte romanica? Saggio su un passato reinventato", edizione italiana riveduta e curata da Roberto Cassanelli (Jaca Book, 2009, € 42).
Il titolo dovrebbe far sobbalzare tutti quanti hanno a cuore, - o presumono di avere a cuore -, i nostri monumenti. Presso il pubblico del territorio lombardo e soprattutto comasco, l’arte romanica è sicuramente al massimo del gradimento e della considerazione. Nel Comasco poi la politica culturale in questo settore, quando si rivolge alle glorie locali, non sa vedere che il Romanico e il Razionalismo (limitandosi a Terragni), molto a fatica e raramente aggiunge un po’ di Neoclassico (Simone Cantoni), e regolarmente ignora la diffusa presenza di opere del Tre, Quattro, Cinque, Sei e Settecento, rinunciando a valorizzare la storia di artisti e maestranze apprezzate in tutta Europa.
"Contro il Romanico?" è un libro che affronta temi centrali della civiltà architettonica e figurativa che ha caratterizzato l’Europa occidentale e ovviamente anche l’Italia tra la fine del X e il XII secolo, con significative incursioni in periodi limitrofi dell’Altomedioevo e del Gotico. I capitoli del libro sembrano costruiti in precisa alternanza, se nel primo "Inventare l’arte romanica: la costruzione di una disciplina" prevale l’aspetto destrutturante, nel secondo si riallacciano le fila del discorso "Dal Preromanico al Gotico: un percorso europeo"; e così agli errori storiografici messi in chiaro nel terzo segue l’ampio sviluppo sulle personalità artistiche nel quarto, per chiudere ancora provocatoriamente con le questioni aperte e controverse che rilanciano il tema di partenza: quello dei restauri romantici che sono nati con la scoperta (o meglio invenzione) del Romanico come categoria stilistica, applicando a edifici stratificatisi storicamente l’astrazione della forma primigenia da perseguire con interventi demolitori e stravolgenti, ma spesso dal risultato affascinante che talora andrebbe letto tout-court, come autentica architettura dell’Ottocento.
E ancora destrutturando e ristrutturando, demolendo inveterate convinzioni e rinsaldando conoscenze comprovate Barral s’interroga sul ruolo della donna, sull’immagine di Eva e di Maria, su quelle del Cristo, morto o vivente, e sulle cosiddette Madonne Nere di famosi santuari dalla Spagna alla Polonia, fino a leggere nel trionfo del gotico che non riesce per almeno un cinquantennio ad espugnare certe fortezze del Romanico, «l’esistenza di una doppia civiltà», riconoscendo pur «a rischio di semplificare la questione», un nord e un sud d’Europa, il secondo sempre stregato dal richiamo della penisola italica e da Roma.
Sugli odierni interventi nelle chiese storiche Barral accusa le gerarchie ecclesiastiche di incapacità di accogliere le istanze espressive e comunicative che il lascito delle avanguardie del Novecento offrirebbe. Il ragionamento emerge dalla riconsiderazione della policromia che certamente caratterizzava anche le chiese romaniche, all’opposto di come sono state interpretate «in bianco e nero» dalla cultura otto-novecentesca.
Quando l’autore afferma che «l’Europa romanica è una realtà tangibile con una sua propria personalità, al di là delle differenze regionali e del diverso ritmo con cui la produzione artistica si sviluppa in ciascun ambiente geografico o sociale», si scopre la preoccupazione di comprendere la complessità delle manifestazioni in cui si colgono denominatori comuni che non sono mai del tutto riconducibili a matrici univoche. Così si critica la ricerca un po’ ossessiva delle priorità (l’esempio più illuminante è la disputa sulle architetture di Tolosa e Compostella) e l’ingenuità di chi ha cercato di stabilire i percorsi delle "influenze" stilistiche (come per certe cupole ritenute arabeggianti), smentito magari da osservazioni più attente su altre aree territoriali. Far parlare i monumenti e parallelamente far parlare i documenti, leggerli con attenzione, è il lavoro invocato dall’autore per uscire dai luoghi comuni, come quello dell’anonimato o della presunta umiltà degli artisti romanici, con la consapevolezza che il lavoro dello storico e dello storico dell’arte non potrà mai pretendere l’oggettività, proprio perchè esso stesso calato dentro la storia. Non a caso l’interesse e il culto per il Romancio risalgono all’Ottocento. Il XIX secolo è infatti segnato dall’affiorare e dal progressivo irrobustirsi delle coscienze nazionali, fino a momenti di esplosione rivoluzionaria, affiancati dall’elaborazione teorica liberale, nel solco della quale si ritrovano gli appassionati dibattiti sull’arte della propria nazione, le indagini archeologiche e la nascita delle società di storia patria, la riscoperta dei monumenti che diventano simboli di unità e le connesse operazioni di restauro in stile. Opportunamente Barral evidenzia come un fenomeno identico si stia verificando dopo la dissoluzione della Iugoslavia con la Croazia che «ricostruisce un percorso artistico che nulla deve alla Serbia».

Alberto Rovi

© RIPRODUZIONE RISERVATA