Cultura e Spettacoli
Mercoledì 06 Gennaio 2010
Bernasconi e Soffici
Un ritorno alle origini
La lunga amicizia e il carteggio tra il pittore canturino e il letterato toscano
Entrando un giorno nello studio di Ugo Bernasconi, conservato intatto dalle figlie, provai una sensazione particolare. Tutto, gli scaffali con i quadri, il tavolo su cui erano posati in bell’ordine carta e penna, la biblioteca, sembravano ancora pregni di una forte presenza umana, di qualcuno che lì aveva trascorso, pensando, conversando, dipingendo, una vita intera. Le figlie, specialmente Primavera, che s’era incaricata di raccogliere e inventariare la copiosa corrispondenza, con il loro atteggiamento affettuosamente rispettoso, sembravano le vestali di un piccolo tempio famigliare. Qui lavorava il Babbo, dicevano. Proprio così, il Babbo, con la B maiuscola. Come il "mio Capitano" della celebre ode di Whitman. E di colpo, allora, quella stanza spoglia e austera mi parve la cabina di una nave, il centro di un mondo.
Una sensazione non dissimile devono averla provata il 25 gennaio 1933 allorchè, in una Cantù semisepolta dalla neve, fecero un’improvvisata alla famiglia Bernasconi due personaggi davvero non comuni, Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Si conoscevano, fino a quel momento, soltanto per lettera: Papini, in particolare, aveva per l’amico di Cantù una stima e un’affezione particolari, mentre il Soffici, avendo avuto occasione di leggere alcuni suoi scritti, era rimasto colpito dalla sensibilità di quell’intellettuale di provincia. L’incontro di persona, in un’atmosfera patriarcale di grande calore, ha un effetto sorprendente. I due avevano apprezzato lo scrittore di brevi prose argute e frizzanti pubblicate da varie riviste, il motivato pensatore, il diarista capace di una sua serena considerazione sulle vicende umane, ma Soffici non aveva un’idea precisa dell’altra attività di Bernasconi, la pittura. E così racconta il primo impatto del rapporto con il saggio intellettuale eremita, confessando di aver lasciato nella casa canturina «un po’ di cuore»: «Si credeva, venendo attraverso il freddo e la neve a Cantù, di compiere un atto di eroismo. La ricompensa è stata di trovarvi un amico e una famiglia così magnifici che il vantaggio è stato superiore al merito nostro» tanto da divenire «un debito di riconoscenza oltre che di affetto imperituro». Ma sono i quadri ad averlo più impressionato. Bernasconi, abbandonando le dissolvenze atmosferiche, i contorni sfumati appresi dal parigino Carrière, aveva allora imboccato la strada di un franco naturalismo lombardo dalle nitide definizioni volumetriche, da vivaci campiture colorate che peraltro non erano affatto una fedele riproduzione della realtà.
Nelle sue figure femminili garbatamente sorprese in atteggiamenti quotidiani, nei paesaggi sobriamente delineati con un senso arioso dello spazio, era sempre sotteso un meticoloso studio formale, il distacco critico, la meditazione che sempre sorreggeva ogni suo atteggiamento, tanto da conferire alle immagini una levità incantata.
Quella sorta di meravigliosa sospensione dei sensi trasmessa ad una visione del mondo, così cara anche ai tormenti inventivi del più caro collega di Bernasconi, Arturo Tosi, fece dire al Soffici, quando nel 1934 stese una relazione introduttiva ad una mostra dell’artista canturino, che la sua opera rifletteva un’intensa spiritualità ma anche una sicura conoscenza della propria origine. E se esistesse una contiguità fra lui pittore e l’amico brianzolo - ragiona Soffici - non poteva che essere identificata nel comune ritorno alle proprie radici territoriali, la "lombardità" piuttosto che la "toscanità", malgrado la diversità di temperamento, «egli spirito pacato, meditativo, tutto raccolto in sé… io di temperamento più risoluto avventuroso e realistico». Un apparentamento che prescinde poi dalle convinzioni politiche, Soffici convinto delle motivazioni fasciste di riscatto nazionale pur essendo un moderato di stampo europeista, Bernasconi alieno e alla fine ostile al regime, tenacemente avverso ad ogni etichettatura politica.
Dell’artista lombardo il toscano elogia il mistico raccoglimento ma anche la tecnica raffinata e schietta, senza compromessi; in particolar modo ne condivide la fedeltà alla tradizione pittorica italiana, la classica compostezza, contro le nuove tendenze dell’arte «degenerata in mero tecnicismo, in astrattezze convenzionali, in puerili artifizi e in semplici virtuosismi decorativi». Un anatema antimoderno che trova in Bernasconi un’eco convinta, approvando la battaglia che Soffici combattè sempre tenacemente contro i movimenti di vecchie e nuove avanguardie.
Più che l’amicizia sincera ed i favori elargiti in varie occasioni, dal premio della Quadriennale all’offerta di collaborazione su giornali e riviste fino all’aiuto per organizzare mostre, l’importanza del sodalizio Soffici-Bernasconi è qui, nell’essere concordi nel rifiuto a ciò che consideravano mere fumisterie, snobismi accademici, senz’anima né vero sentimento. Bisogna precisare che non erano soli, in questo pugnace rifiuto di mode e di compromessi con l’ufficialità dei riconoscimenti critici. Accanto a loro si schierarono gli "irriducibili" tradizionalisti, tutti protagonisti di un fitto scambio epistolare con Bernasconi: Ugo Ojetti, lo stesso Linati, Papini, Pastonchi, Panzini, Pancrazi, Boine, Bucci, Cesare Angelini, tanti altri, ai quali negli ultimi anni si affiancò un critico dalle posizioni intransigenti contro gli "ismi" di ogni genere, Leonardo Borgese. Sul "Corriere" Borgese lanciò strali avvelenati in varie direzioni, ma esaltò Ugo Bernasconi come un maestro, anche dopo la morte, guarda caso lamentando anche lui che fosse ingiustamente sottovalutato. Il suo elogio aveva un fondamento, di natura etica. Era la stessa ragione che aveva motivato l’amicizia di Soffici, la "moralità", la trasparenza interiore, non a torto definita una manifestazione laica di religiosità del pittore e scrittore canturino. Ed è il motivo più valido per riconsiderarne l’opera intera, a cinquant’anni dalla morte nella sua città d’adozione.
Alberto Longatti
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