Cultura e Spettacoli
Sabato 23 Gennaio 2010
L'Olocauso lombardo
iniziava al Binario 21
Il drammaturgo e scrittore lezzenese Basilio Luoni racconta un aspetto quasi sconosciuto della Shoah: il ruolo della Stazione Centrale di Milano nella deportazione degli Ebrei verso il lager di Auschwitz.
Il Novecento si apre e si chiude con due grandi opere sulla memoria: la Recherche di Proust e Austerlitz di W.G.Sebald. Ma nei decenni che portano dall'un libro all'altro la memoria ha cambiato di segno: nel primo è l'operatrice di un recupero liberatorio, "consolante", nel secondo il recupero genera angoscia e non scioglie dalla disperazione. Significativamente, se la "Recherche" ha come immagine simbolica la cattedrale, Austerlitz la sostituisce con la stazione ferroviaria, provvisorio ospizio di «viaggiatori in qualche modo rimpiccioliti… ultimi rappresentanti di un popolo in via di estinzione, cacciato dalla sua patria o scomparso». Tra l'uno e l'altro, insomma, c'è l'Olocausto, la Shoah. Dopo di allora nessuna memoria potrà più vantarsi o scusarsi o defilarsi innocente, nemmeno quella delle ultime beate (?) generazioni. Quando si è andati davvero "troppo oltre" nella vergogna una volta, è un dovere - anzi una doverosa, inevitabile condanna - ricordarsene. Per non ricadere nell'orrore? Sì, se possibile. E certamente, ancora prima, per non nutrire invereconde illusioni su noi stessi, sulla buona pasta di cui saremmo fatti. Sono morti i colpevoli (uomini) di allora? Ma noi (uomini) - ricordiamocelo - siamo i loro figli e nipoti. (Un po' di anni fa, a Lezzeno, i ragazzi delle medie avevano un'esclamazione ricorrente: Esagera!, quando un compagno faceva il bauscia più del lecito e onesto; poi dopo, magari in separata sede si commentava: Ma basta vedere di chi è figlio. Adesso mi accorgo che mentalmente la uso anch'io sempre più spesso alle sparate delle Pompose Nullità a uso pubblico - le P.N.U.P. - che abbiamo in dotazione, e con preoccupazione crescente aggiungo: Sono figli di chi?).
Da bravi Pollicini previdenti che non vorrebbero più uscir di carreggiata, andiamo perciò a mettere un sassolino alla Stazione Centrale di Milano. Il sito è stranoto quale monumento angoscioso della contorta demenza edificatoria moderna, tant'è che ci si stupisce che nessun regista l'abbia ancora ritenuto confacente a un Nabucco o un'Aida extraterritoriali, o magari un'Ifigenia in Aulide con i treni per Troia in perenne ritardo. Molto meno noto invece è che dal binario 21 negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale partirono i treni con gli ebrei italiani destinati ad Auschwitz (forse vale la pena di ricordare che era il solo lager che riuniva le due funzioni: di concentramento e di sterminio; gli altri, con meno ambizioni, erano per così dire monofunzionanti). I deportati non erano costretti a salire le scalinate di marmo che portano alla "salle des pas perdus" (la definizione suona sinistramente calzante). I camion che li avevano caricati a S.Vittore raggiungevano via Ferrante Aporti e dal cancello al numero 3 della detta via si infilavano nei sotterranei della stazione (in realtà sotterranei non sono, essendo a livello della sede stradale). Qui gli ebrei passavano dal camion a un vagone merci che una volta pieno e sigillato veniva sollevato mediante un elevatore a comporre con altri il treno in formazione al binario 21. Ai prigionieri era risparmiato il dolore di vedere per l'ultima volta la stazione; ai passeggeri liberi in transito era risparmiato lo "scandalo" dei deportati innocenti. Applicazione sarcastica dell'adagio: se l'occhio non vede, il cuore duole un po' meno? Essendo il luogo così nascosto nel ventre della stazione, a nessuno è mai venuto in mente di cambiargli aspetto. Dopo sessanta anni dalla tragedia il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea con sede a Milano, in occasione del decimo anniversario della creazione della Survivors of the Shoah Visual History Foundation di Los Angeles e con l'appoggio della Provincia di Milano, ha promosso una raccolta di firme per aprirlo al pubblico e crearvi il memoriale milanese della Shoah. Attualmente sono iniziati i lavori per quella che diventerà la sala di esposizione multimediale. Intanto il C.D.E.C. ha reso note testimonianze preziose, prima fra tutte quella della signora Liliana Segre. Quando il 30 gennaio 1944 venne caricata sul treno per Auschwitz-Birkenau aveva tredici anni. Era con altri seicento ebrei, fra i quali una quarantina di bambini e suo padre Alberto Segre, ufficiale della Grande Guerra. Con lui dopo l'8 settembre aveva cercato di mettersi in salvo in Svizzera. Superato il confine sulle montagne dietro Viggiù con il contributo esoso di contrabbandieri senza scrupoli, si erano subito imbattuti in una sentinella. Al comando vicino, un ufficiale svizzero-tedesco non aveva voluto sentir ragioni e li aveva costretti a rientrare in Italia. Così la ragazzina - divisa dal padre - conobbe le carceri fasciste di Varese e di Como. Si ritrovarono a S.Vittore dove gli ebrei erano ammassati tutti al quinto raggio in attesa della deportazione. Al treno vennero di nuovo separati. Lei lo guarda da lontano preoccupata per lui, nei cui occhi c'è la disperazione per averla messa al mondo: in quel tempo, in quel mondo. Il 6 febbraio il convoglio arrivò a destinazione, ci fu lo smistamento dei deportati. Cinquecento di loro vennero subito avviati alle camere a gas: in poche ore furono pronti per il Krematorium. Alberto Segre morì, la figlia sopravvisse. Nella testimonianza resa con una lieve, dolcissima cantilena lombarda, colpisce una frase agghiacciante: «ora sono la nonna di me stessa». In un lampo vediamo una ragazzina ferma da sessant'anni davanti a un binario, e che si sorprende del silenzio che adesso vi regna, a differenza della oscena confusione di un tempo. È giusto che adesso sia fatto silenzio. E però non un silenzio che significhi dimenticanza. Sia fatto silenzio perché quelle voci continuino ad essere udite. Come avviene nello straziante film-documentario Shoah di Claude Lanzmann che in questi giorni la rete franco-tedesca Arte trasmette a puntate. Due tra gli ultimi sopravvissuti all'olocausto sono riportati nei luoghi degli anni nefandi: si aggirano per foreste e prati a perdita d'occhio (Polonia, Lituania…) ritrovano un villaggio, un sentiero, le fondamenta delle baracche di un campo, le case un tempo abitate dagli ebrei, incontrano tetre facce medievali di polacchi, lituani, tedeschi trapiantati, annusano - e noi con loro - pregiudizi e livori sempre vivi nell'aria balsamica dei boschi, e senza alzare la voce, senza forzare i toni, ricordano, raccontano. Sarà mai possibile vederlo anche sulle nostre trucibalde reti televisive malate di Alzheimer?
© RIPRODUZIONE RISERVATA