Cultura e Spettacoli
Martedì 26 Gennaio 2010
Dal lager a Porlezza
Storia di "natalibera"
La madre, valtellinese, fu stuprata da un militare tedesco e deportata ad Auschwitz e Mauthausen. Per una serie incredibili di vicissitudini, la donna riuscì a salvarsi e a ritornare a casa. Trovò il disprezzo del paese e si spense in manicomio: Maria Rosa Romegialli racconta questa storia terribile, e pure ricca di speranza, in un libro, che si presenta il 27 gennaio a Roma, alla Casa della memoria.
Maria Rosa Romegialli abita a Milano ed è l’unica neonata - per quanto è dato sapere - sopravvissuta ai lager nazisti. Si è calcolato che lì, dove l’uomo dimenticava di essere umano, siano stati sterminati due milioni di bambini e bambine. Maria Rosa grazie all’eroismo della madre, Augusta Romegialli, si è salvata. Ora dà voce e cuore al sacrificio materno e testimonia con la sua persona come l’ultima parola non spetta alla morte, ma alla vita. Il 27 gennaio a Roma - alla Casa della Memoria - presenta il libro "Natolibero" (Edizioni Il Filo, 13.50 euro).
Chi era per lei Augusta Romegialli?
Augusta era mia madre, la persona più importante al mondo perché donò tutta se stessa per darmi la vita. Madre di cinque figli, era una donna energica e tenace. Fu una delle prime a Morbegno a organizzare degli scioperi presso la filanda dove lavorava. Aveva a cuore la libertà in quegli anni di dittatura nazifascista e aiutò con generosità gli americani guidandoli nei valichi per la Svizzera.
Per quale motivo fu deportata in Germania?
Dopo l’esperienza in fabbrica, lavorò nella segheria valtellinese della Todt sotto giurisdizione tedesca. In seguito a una delazione mia madre fu denunciata all’ispettore governativo fascista Tagliabue perché ritenuta una sovversiva collaborazionista degli alleati. Venne condotta con veemenza in una delle classi del plesso scolastico di Morbegno e fu torturata, costretta a rimanere seduta per ore su una sedia cosparsa di puntine. Partì dalla stazione di Sondrio, insieme con altri deportati tra cui un folto numero di valtellinesi e raggiunse Auschwitz il 6 febbraio 1944. Rimase lì fino a inizio estate, poi ad agosto arrivò nel campo di Dachau. Durante quel viaggio un militare tedesco abusò del suo corpo.
Quando si accorse di essere incinta cosa decise di fare?
Dapprima la violenza subita causò in mia madre rabbia e frustrazione. Poco tempo dopo intuì che dentro di lei stava germogliando il seme della vita. Ebbe paura, molta paura. Sapeva benissimo come i tedeschi trattavano i bambini. Tanti incontravano la morte nelle camere a gas, altri venivano annegati o strangolati dagli stessi gerarchi nazisti. Nel campo di Dachau una mattina, incontrò incredibilmente Stanislao, il maestro dei suoi figli Pierino e Sergio. Quel ritrovarsi fece ricordare ad Augusta il suo paese, il panorama rasserenante della valle e la gioia della famiglia. Si ricordò di quanto fosse felice mentre aspettava il parto. Decise che doveva essere così anche questa volta, nonostante l’orrore quotidiano cui erano costretti i suoi occhi.
Nei campi tutto assumeva i contorni bestiali di una disperata lotta alla sopravvivenza fra gli internati, ci fu spazio per la solidarietà umana?
Nel dicembre del ’44 mia madre venne trasferita nella fortezza austriaca di Mauthausen. Alcuni mesi prima nello stesso campo fu deportato il partigiano Giuliano Pajetta. Conobbe Augusta, il segreto che custodiva e si persuase che fosse giusto salvare il bambino. Pajetta conosceva le maggiori possibilità di reperire del cibo nei sottocampi, dove mancavano forni crematori, camere a gas e in media si viveva di più. Lui era sulla lista dei nominativi destinati al campo secondario di Graz affinché da lì potesse guidare i sabotaggi interni. Cedette il suo posto a mia madre con la promessa di chiamare il figlio "Natolibero" a ricordo della vittoria contro il nazismo.
Come riuscì sua madre, ormai avanti nella gravidanza, a sopravvivere e fuggire?
Nel campo di punizione della Gestapo a Graz, mia madre lavorava come sguattera nelle cucine. Quel genere di occupazione fu decisivo per lei e per la mia sopravvivenza. Augusta nelle cucine era riparata dal freddo e poteva nutrirsi regolarmente con gli avanzi. Il fatto che lavorava al primo piano dell’edificio facilitò la sua fuga che avvenne la notte del 2 marzo del ’45 durante un bombardamento americano. Gli alleati volevano colpire uno stabilimento vicino, lo Steyr-Daimler-Puch, dove i tedeschi producevano aerei. Squarciarono anche la struttura che comprendeva le cucine. Mia madre, complice il trambusto e la situazione d’allarme riuscì a scappare. Stremata, trovò ricovero presso l’ospedale di Santk Leonhard. Il 14 marzo vi furono altre offensive aeree, due attacchi coinvolsero una parte del reparto maternità. Io nacqui quella notte in un cortile, mentre molti fra medici e pazienti morirono ustionati dalle bombe incendiarie, compresa la mia levatrice. Augusta scelse il nome Maria Rosa. "Natolibero" rimaneva comunque il simbolo di quella battaglia contro le barbarie totalitarie.
Possiamo, dunque, dire che il destino si mosse e dal cielo sancì la sua nascita?
Sì, le mani della Provvidenza protessero la mia nascita e i miei primi respiri dentro una borsa, accanto ad una bottiglia d’acqua calda. Poi furono le mani di agricoltori e montanari solidali a sfamare e ospitare una donna in fuga con una neonata. Mia madre impiegò venti giorni per attraversare il Tarvisio, abbandonare la Stiria e dirigersi verso Villach. Percorse sempre strade secondarie poco battute. A ogni sosta non le venivano negati un bicchiere di latte e un letto sotto il quale coricarsi. Tornò in Italia con un treno della Croce Rossa.
Tuttavia il calvario per Augusta non finì, vero?
Quando arrivò alla stazione ferroviaria di Milano, non c’erano sorrisi e abbracci ad attenderla. Era sola e desiderava rituffarsi nella normalità di Morbegno, riassaporare il calore del focolare domestico e con una carezza ai figli cancellare di colpo le sofferenze patite. Al ritorno in paese fu travolta da un fiume di malelingue, dicerie infamanti e false denigrazioni. Spesso le donne che sopravvivevano ai lager, erano considerate collaborazioniste o prostitute e venivano brutalmente emarginate. Non erano destinatarie dello stesso grado di riconoscimento concesso ai partigiani, perché a dir loro erano «colpevoli di non aver ucciso un nemico». La madre di Augusta le diede il benvenuto con questa frase: «Non avrai per caso combinato qualcosa con un tedesco per essere tornata? Ti proibisco di rivedere i tuoi figli, per me sei un fantasma». Augusta, dopo la morte di tubercolosi del marito Franco (contratta nel ’43), davanti all’ostilità pervicace di parenti e compaesani partì per Milano, dove ad aspettarla, c’eravamo io e i miei futuri genitori adottivi.
(L'intera intervista si può leggere sull'edizione de "La Provincia" del 27 gennaio)
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