Cultura e Spettacoli
Mercoledì 03 Febbraio 2010
"Mio padre Petacci,
un eroe dimenticato"
Il fratello di Claretta fece espatriare alcune famiglie di ebrei in Svizzera. Chirurgo, si prodigò nelle cure ai bisognosi. Fu giustiziato a Dongo, con Mussolini, in fuga con la compagna e i due figli piccoli. Oggi il figlio Ferdinando, dall'America, ne cerca la riabilitazione: ecco l'intervista esclusiva di Carla Colmegna per "La Provincia".
La vita della famiglia Petacci si apre a libro con pagine ricche di eventi che nei manuali di storia non vengono inseriti. Fatti che restano confinati nella memoria di chi li ha vissuti, spesso senza documenti d'appoggio, come quei tanti piccoli accadimenti vissuti dalla gente comune, quella che in tempo di guerra non decideva nulla, ma subiva tutto e cercava di non morire. Tentavano probabilmente di salvarsi la vita anche il fratello di Claretta Petacci, Marcello, la moglie Zita e i due figli Ferdinando e Benvenuto.
Come? Provando ad espatriare in Svizzera passando, per forza, dalle nostre zone: Varese e Como, prima di decidere di seguire la zia Claretta e la colonna del duce.
L'unico superstite della famiglia Petacci, Ferdinando, lo racconta dall'Arizona dove vive ormai da molti anni e da dove ricorda che il padre Marcello, medico-chirurgo, oltre ad essere in contatto con Mussolini si prodigò, secondo i suoi ricordi, anche per gli ebrei italiani aiutandoli a mettersi in salvo. Ci sono delle lettere di ringraziamento, scritte postume dagli ebrei salvati che lo attestano. Secondo Ferdinando, inoltre, è possibile che il padre Marcello «fosse espatriato in Svizzera per avere dei contatti con l'ambasciatore inglese Sir Northon senza il controllo di fascisti e nazisti.
Ipotesi che mi raccontò mia madre».
Ferdinando, la sua famiglia seguì il duce, e suo padre e sua zia vennero uccisi a Dongo, ma perché i suoi genitori scelsero, con due bambini, di seguire Mussolini e non rimasero a Milano dove avevate casa?
In primo luogo non potevano sapere in anticipo quanto sarebbe successo, in secondo luogo dato che Clara e Marcello collaboravano sia con gli inglesi che con Mussolini si sentivano confidenti che avrebbero potuto maneggiare qualsiasi situazione ed infine ritengo che fu perché Clara era decisa a seguire Mussolini e mio padre, non avendola convinta a rinunciare, pensava di poterle essere utile in qualche modo.
In Svizzera, dov'era vostro padre, c'eravate anche voi prima di andare a Dongo?
Sì, ma eravamo in un campo di concentramento svizzero. Mio padre espatriò in Svizzera clandestinamente (con mia madre e noi) dall'Italia attraverso la valle d'Intelvi usando la stessa via che utilizzò per fare espatriare alcuni degli ebrei che salvò (come per esempio il Ferrara ed i Rosemberg). In Canton Ticino, stavamo dai Rosemberg quando la polizia Svizzera ci scopri e ci internò in un campo, dove mio padre si fece ben volere perché, essendo chirurgo, curava gratis sia gli ospiti del campo che le guardie. Poi decise di ritornare in Italia malgrado le guardie svizzere glielo sconsigliassero.
Tornati in Italia cosa accadde?
Con mio padre ci recammo a Milano dove lui s'incontrò con zia Clara, proveniente da Gardone, e decisero di raggiungere ed accodarsi al convoglio di Mussolini che si dirigeva in Valtellina. Una decisione sbagliata presa per la determinazione di zia Clara a seguire Mussolini (contro il parere di mio padre) e che portò al tragico, ingiusto e scandaloso assassinio di entrambi.
Scandaloso non solo perché mia zia e mio padre non ricoprivano alcuna carica politica che ne gustificasse una condanna, ma perché erano adirittura collaboratori degli inglesi.
Che ricordi ha del suo viaggio verso la Svizzera?
Ricordo che stavamo in una villa di Lanzo d'Intelvi prima dell'espatrio e che l'espatrio fu fra i boschi e passando sotto barriere di filo spinato. Questo particolare me lo ricordo perché mia madre mi raccontò varie volte come ero stato bravo in quell'occasione.
Prima d'espatriare ci avevano raccomandato di evitare al massimo di far rumore e di mantenere il più assoluto silenzio. Passando sotto il filo spinato una spina del filo s'infilò nel mio sederino di bambino di circa tre anni, e mia madre mi raccontava che, sebbene avessi le lacrime agli occhi, non emisi un solo lamento.
Non avete mantenuto i contatti con la famiglia Rosemberg che lei cita?
L'ho ricercata, ma solo verso la fine degli '80, e non sono riuscito a rintracciarla.
È chiaro che mio padre, sia quando fece espatriare gli ebrei per quella via, sia quando la usò per se stesso, venne aiutato da gente locale che conosceva bene la zona e le abitudini delle guardie di frontiera.
Sarebbe interessante riuscire a sapere se ci sono ancora discendenti delle famiglie con cui entrarono in contatto i membri della famiglia Petacci, in questo modo si aggiungerebbero tasselli alla storia di un nucleo familiare che correva in parallelo alla grande Storia.
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