Cultura e Spettacoli
Venerdì 12 Febbraio 2010
"Sono tornata a Baghdad"
La Sgrena si racconta
Per scrivere il suo nuovo libro, l'inviata di guerra ha rivissuto il ricordo del sequestro e la tragedia della morte di Calipari, l'agente ucciso dopo la sua liberazione. "La Provincia" l'ha incontrata. "Prima vivevo con grandi entusiasmi e progetti. Ora vivo alla giornata".
«L'unico modo per combattere le guerre è raccontare gli effetti che producono» dice Giuliana Sgrena, inviata di guerra in Iraq dove è tornata dopo quattro anni di assenza «Oggi con le nuove tecnologie abbiamo più informazione ma uno sguardo sul terreno dà altre impressioni. Per interpretare ciò che passa su internet dobbiamo sapere ciò che realmente accade».
Quando ha iniziato a scrivere?
Nel 1975, frequentavo Lingue all'università di Milano. Facevo parte del Movimento Studentesco, scrivevo per «Fronte Popolare». Seguivo un gruppo di esuli spagnoli che vivevano in Italia, il primo articolo fu sulle ultime condanne a morte di Francisco Franco.
Come si è avvicinata al Medio Oriente?
Più per interessi politici che giornalistici. Mi ero occupata molto del Mediterraneo, soprattutto della costa Sud, sono stata fra i fondatori dei Comitati per la Pace in Italia. Verso la fine degli anni Settanta ho iniziato a occuparmi del Medio Oriente.
Fra i paesi di cui si è occupata in quegli anni quale ricorda maggiormente?
L'Algeria. Mi ha formata, aiutandomi a capire le donne musulmane. Ho scoperto che nei paesi musulmani esistevano gruppi femministi avanzati, con il nostro stesso modo di sentire i problemi delle donne e della democrazia. All'Algeria ho dedicato molto tempo, oggi i miei libri vi vengono tradotti e ho ancora moltissimi amici.
Perché è voluta tornare Iraq e raccontarlo in un libro, «Il ritorno»?
Ho cercato di affrontare il trauma enorme che ho vissuto. All'inizio rifiutavo tutto ciò che riguardasse l'Iraq, sicura di dimenticarlo. Attraverso amici iracheni che vivono in Italia ho ricominciato a interessarmi, c'era qualcosa che mi attirava di nuovo verso quel mondo. Ho iniziato a fare servizi sui profughi iracheni in Giordania e in Siria. Ho condiviso con loro il desiderio e l'impedimento a tornare. È stato decisivo. Sono andata prima nel Kurdistan iracheno, ma non bastava. Se volevo superare il trauma dovevo andare a Baghdad a fare il mio lavoro là dove mi era stato negato. L'unico modo di fare giornalismo è andare sul posto, documentarmi, parlare con la gente.
Come ha guardato l'Iraq dopo il rapimento?
Non ho più preso contatti con le persone che mi avevano accompagnato per il paese. Ho voluto cominciare una nuova esperienza. La cesura è rappresentata dal mio rapimento e dall'uccisione di Calipari. Sono stata aiutata a entrare nella nuova Baghdad da un gruppo di giornalisti iracheni. Facevo paragoni non con la città lasciata nel 2005 ma con quella conosciuta nel 1990. Pian piano ho recuperato lo spazio intermedio iniziando a confrontarmi con il mio ultimo periodo.
Non ha provato dolore tornando a Baghdad?
Nel secondo viaggio, a ottobre. Sono andata con una troupe greca che girava un documentario sui giornalisti uccisi in Iraq, il che mi ha continuamente sollecitata a ricordare.
Cosa le ha dato più fastidio?
Tutto ciò che non è ancora cambiato. È un paese senza servizi sociali e sanitari, scarseggia l'elettricità parecchie ore al giorno, manca l'acqua, non c'è lavoro. Questo mi riempie di rabbia perché i soldi del petrolio ricominciano a entrare. Coi nuovi appalti ne entreranno di più ma c'è molta corruzione nel governo. Baghdad è ancora sfigurata con muri che la dividono.
Quali cambiamenti l'hanno sorpresa?
La reazione della gente, soprattutto le donne. Non sono più chiuse in casa, com'era successo dopo la caduta di Saddam con l'arrivo delle milizie religiose che avevano impedito loro di fare qualsiasi cosa, perfino di guidare la macchina. Approfittando del periodo di relativa sicurezza iniziato la primavera scorsa, uomini e donne hanno ripreso una vita attiva. Il primo giorno che sono arrivata a Baghdad in un ristorante ho visto una tavolata di studenti, ragazze e ragazzi in jeans, che festeggiavano la fine dell'anno scolastico. I ristoranti lungo il Tigri sono affollati, ho visto gruppi di donne sole, famiglie coi bambini. È un ritorno della laicità anche politica. Dopo la caduta di Saddam erano arrivati tutti i partiti religiosi, c'erano liste sciite, sunnite, curde. La gente oggi chiede separazione fra religione e politica. È positivo.
Come vivono i cristiani in Iraq?
Se ne sono andati moltissimi, durante Saddam erano tollerati, non potevano fare proselitismo ma frequentavano liberamente le chiese. Nelle scuole in cui i bambini cristiani superavano il 25% potevano insegnare catechismo. In tutto l'Iraq i cristiani erano il 5%, dopo l'arrivo delle milizie religiose sono stati i più colpiti. Alcuni di loro gestivano negozi di alcolici dati alle fiamme con i proprietari dentro. C'è stata una caccia ai cristiani, si sono dovuti rifugiare al Nord, molti oggi vivono in Siria e in Giordania. La situazione per loro è pericolosa, non sono più accettati. Se andassero via tutti i cristiani, sarebbe un impoverimento per il paese. Quella caldea è una chiesa profondamente legata all'Iraq.
L'Iraq, il rapimento hanno cambiato il suo modo di fare giornalismo?
No, dopo il rapimento sono andata in Afghanistan a seguire le elezioni del 2005. Forse avevo meno sicurezza ma sono riuscita a fare il mio lavoro. È cambiata la mia vita, adesso c'è un prima e un dopo. Prima vivevo con grandi entusiasmi e progetti, oggi vivo alla giornata.
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