Cultura e Spettacoli
Mercoledì 17 Febbraio 2010
Dacia Maraini a Como:
"Manca coscienza critica"
Intervista alla scrittrice di Marianna Ucria, invitata il 17 febbraio dall'Università dell'Insubria, a partecipare a un incontro con la cittadinanza. Ecco una sintesi del testo pubblicato su "La Provincia" del 18 febbraio.
L'occasione di un incontro comasco organizzato dalla facoltà di Giurisprudenza all'Università dell'Insubria, sede di Como, diventa opportunità per un colloquio con una delle scrittrici italiane più importanti e autenticamente internazionali. Si parla di Dacia Maraini, l'autrice di "Bagheria" e di "La lunga vita di Marianna Ucria", per citare i titoli forse più noti e amati dal pubblico.
Signora Maraini, partiamo dal tema dell'incontro che la ha portata all'Università dell'Insubria: la lingua in rapporto al genere umano. Quanto è attuale ancora il problema linguistico?
Non soltanto è attuale ma davvero importantissimo soprattutto oggi. Se è vero che l'identità di un paese non sta nel passaporto e nella bandiera ma proprio nell'idioma nazionale allora ci rendiamo conto di quanto risulti importante difendere la lingua, nel nostro caso, l'italiano. Dobbiamo lavorare, ad ogni livello, per difenderlo dalle contaminazioni, soprattutto quelle, frequentissime oggi, con i linguaggi delle tecnologie che parlano l'inglese tecnico.
Nel dibattito culturale e politico poi, si parla spesso di integrare lo studio dell'italiano con quello dei dialetti. Lei che in molte sue opere ha inserito termini della lingua siciliana, che ne pensa?
Non si può non riconoscere il valore e la bellezza delle lingue regionali italiane che però, va detto, non possono sostituire l'idioma nazionale, vero substrato culturale comune di un popolo, unico capace di evitare la frammentazione. Un conto è leggere e ammirare le mirabili prove linguistiche di Carlo Porta o Belli. Un altro è pensare di utilizzare quelle lingue per la comunicazione comune. È vero, anche io ho scritto usando parole dialettali ma per uno scrittore questo significa far emergere la lingua del cuore e dei sentimenti. Un'altra cosa è la comunicazione. Cerco sempre, anche quando scrivo, di confrontarmi con le modificazioni del tempo della narrazione, mescolando purezza e attualità della lingua.
Anche nell'ultimo libro di racconti «La ragazza di via Maqueda»?
Sì. In questi racconti, creo una sorta di triangolo di geografia biografica, spaziando tra la Sicilia della mia adolescenza, oggi scomparsa, la Roma in cui vivo e l'Abruzzo, altra terra a me molto cara, sulle cui montagne spesso mi ritiro.
Una terra oggi due volte ferita: da terremoto e speculazioni. Che ne pensa?
Sono stata più volte in Abruzzo dopo il sisma e anche di recente. Vedo gli abruzzesi offesi ma non piegati da quello che è accaduto loro. In particolare c'è la consapevolezza che in Italia è davvero difficile, se non impossibile, fare progetti di aiuto comune, senza cadere nelle mani di personaggi senza scrupoli, affaristi che non si fermano davanti a nulla e ridono sulle macerie.
Un'amarezza comprensibile, da estendere a tutto il Paese o no?
Mi pare che viviamo in un momento davvero difficile, in cui la tv addormenta le persone e lascia il campo a figure che hanno la tentazione di andare oltre le regole, oltre i controlli. E noi accettiamo tutto, passivi, convinti che valga solo il fare e che i vincoli della democrazia non siano che fastidiosi rallentamenti. La disinformazione, la pigrizia degli Italiani, che non leggono e non si formano una coscienza critica è la peggiore malattia del nostro Paese.
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