Cultura e Spettacoli
Lunedì 22 Febbraio 2010
Il capolavoro nel cassetto
dell'autrice "dimenticata"
Gabriella Baracchi, scrittrice de "Il vestito di sacco" ha completato il nuovo romanzo. L'ha letto in anteprima per noi il critico Fulvio Panzeri, che lo giudica un libro importante. E si chiede: dove sono i grandi editori?
Spesso gli scrittori più interessanti e più veri vivono ai margini della vita letteraria, in una loro quotidianità isolata che forse permette di dare quel senso di verità e di necessità alla loro scrittura. Non sono rare queste storie: una riguarda proprio il nostro territorio e una scrittrice di casa nostra, Gabriella Baracchi, che meriterebbe più riconoscimenti e una visibilità all'altezza anche di quelle che sono state indicazioni precise da parte della critica.
È una storia non troppo semplice quella che accompagna Gabriella Baracchi: nata a Como nel 1937, rimane orfana di madre all'età di sette anni, e, dopo aver trascorso un periodo di tempo in Val d'Intelvi col padre, viene affidata, nel 1949, all'Istituto della Divina Provvidenza di Lora. Da qui ne esce nel 1961, dopo aver compiuto gli studi superiori e avervi svolto l'attività di maestra per tre anni. Dal 1961 al 1963 vive presso una famiglia comasca in qualità di istitutrice, dedicandosi nel frattempo agli studi universitari. Si è poi laureata e per trent'anni ha insegnato nella scuole superiori di Como. Negli anni Novanta pubblica, presso l'editore comasco NodoLibri, il suo romanzo d'esordio, "Il vestito di sacco". È il 1993 e questo piccolo libro, che Basilio Luoni definisce «un teatrino della memoria, costruito con estrema sobrietà di mezzi e precisione espressiva», diventa un piccolo caso letterario, di cui parlano i quotidiani, di cui si occupano i premi. Merito della cifra stilistica, severa ed asciutta, ma estremamente naturale, della scrittrice e di un racconto amaro, duro, estremamente vero. Sul "Corriere della Sera" a sostenere Gabriella Baracchi è "il critico dei critici", nientemeno che Carlo Bo. In un articolo, commenta: «Lo so, i piccoli, i nuovi, sono penalizzati in partenza. Ma eliminare i famosi, gli anziani, non mi sembra un rimedio. Lo dico pur avendo un caso che in qualche modo mi contraddice. Da un piccolo editore di Como, Nodo, ci è arrivato un libro eccezionale per pulizia, per sapienza di scrittura e per bellezza. "Il vestito di sacco" di Gabriella Baracchi andrebbe onorato con un bel premio. Andrebbe... Ma nessuno conosce la scrittrice e l' editore non ha voce in capitolo. Non importa. I premi passano, le opere restano. Gadda e Landolfi vivono e vivranno, molti dei loro competitori fortunati sono già morti nella memoria». E la rosa di un premio importante, si apre quell'anno per Gabriella Baracchi, quella del "Pen Club", che tra i cinque finalisti annovera anche "Il vestito di sacco". E la Baracchi si trova a dover contendere la vittoria con libri di grande successo come "Bagheria" di Dacia Maraini, "Ninfa Plebea" di Domenico Rea (che quell'anno vince anche lo Strega) e "La variante di Luneburg" di Paolo Maurensing.
Una bella esperienza che però presto riporta nel dimenticatoio il nome della scrittrice, ma non l'eco del suo libro, che circola tra i critici più attenti, che trova lettori scelti e appassionati, ma anche veri e propri estimatori di quest'opera prima di Gabriella Baracchi, ristampata, sempre da NodoLibri, all'inizio di questo decennio, grazie anche all'intervento di una generosa amica.
Aveva ragione Carlo Bo, quando a proposito della Baracchi aveva scritto, che i premi passano, ma i buoni libri restano. E "Il vestito di sacco" non solo è rimasto, ma è anche cresciuto. Nel 2005, "Il vestito di sacco" diventa "La Robe de bure", nell'edizione francese di Les Allusifs, tradotto da Danièle Valin. Allora come si spiega questo fatto che Gabriella Baracchi sia tradotta in francese e questo non susciti interesse in nessun editore italiano? Come mai la società letteraria di casa nostra non va a cercare un'autrice, che ha pubblicato con un piccolo editore della sua città, ma è stata voluta anche dai francesi?
Ora Gabriella Baracchi ha terminato il suo secondo romanzo. Nel 2005 era uscito sempre presso un piccolo editore comasco, le Edizioni Ulivo, un piccolo libro assai unitario, costruito attraverso i frammenti, quasi in prosa poetica, dei ricordi della sua infanzia, <+G_CORSIVO>Con la faccia dei giorni storti<+G_TONDO>. E inizia a scrivere il secondo romanzo che ha un'elaborazione lunga, una decina di stesure, in cui la storia viene riscritta tutta le volte, a mano, perché l'autrice non ha molta dimestichezza con il computer. Ora il libro è pronto. È stato inviato ad un'importante casa editrice e la Baracchi ha ricevuto preziosi consigli dall'editor che le ha telefonato. Un piccolo interesse c'è stato. Ci vuole di più: una scommessa su una scrittrice appartata, per restituirle quei meriti che in questi anni si è guadagnata attraverso un lavoro paziente, metodico, forte sulla scrittura e sulle emozioni della propria vita per farle diventare parte di una storia che in questo secondo libro è stringente, dedicato all'Elvezia, suor Elvezia, conosciuta negli anni del collegio e poi diventata una persona di riferimento nella vita della Baracchi. Raccontare di lei è stata una promessa, fattale in vita, come racconta nel libro stesso, quando un giornalista della Televisione Svizzera Italiana che l'aveva intervistata per "Il vestito di sacco", aveva voluto incontrare anche l'Elvezia. Poi le aveva detto che avrebbe dovuto scrivere un libro su di lei: «"Sì", risposi sovrappensiero, "ma ho bisogno che muoia". Mi guardò spaventato e cercai di spiegarmi: non volevo che l'Elvezia morisse, Ma per scrivere di lei avevo bisogno che non ci fosse più. Che fosse lontana per sempre. Seguì un silenzio pieno di imbarazzo».
Il titolo del libro potrebbe essere "Il rientro", ma anche "Nessuno da baciare": belli entrambi per questa storia che la Baracchi sa tenere, attraverso un pudore di scrittura, lucido e tagliente rispetto anche alle verità più scomode. Qui il miracolo del "Vestito di sacco" si ripete e riporta in scena un grande personaggio da romanzo, una suora che è anche una donna, un libro che per certi versi non trova riscontri in Italia. La Baracchi attraversa la loro storia insieme, con una struttura moderna di narrazione, che unisce tradizione e lindore di tenuta, con una frammentarietà che lentamente impone il ritratto unico e indimenticabile di due donne lombarde: l'Elvezia e la scrittrice stessa. Più della trama, che non raccontiamo, a dire la forza dell'Elvezia è un passo di questo nuovo romanzo, quando la Baracchi le porta una copia del "Vestito di sacco" appena uscito, proprio a lei che non amava particolarmente la lettura: «Mentre stavo per andarmene allungò il braccio, aprì il cassetto del comodino e tirò fuuori il portafoglio. Contò tremila lire e me le mise in mano. "Per te" disse, "per il tuo libro". Posai i soldi sul letto, mortificata, e cercai di convincerla che il libro era un regalo. Non intese ragioni. Mi arrabbiai: se lo voleva pagare, dissi sostenuta, accettavo il prezzo di copertina. Spazientita, sentenziò: "Un libro è una cosa importante!" e mi cacciò i soldi in tasca». Noi siamo come l'Elvezia: siamo convinti che un libro sia sempre importante. Lo è ancora di più in questo caso della Baracchi. Allora questo diventa un appello agli editori italiani: provate a leggere il nuovo dattiloscritto di Gabriella Baracchi, scoprirete l'autenticità di una grande scrittrice, di una scrittura nata dal silenzio delle cose vere, quelle che il tempo non riesce a sbiadire.
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