Cultura e Spettacoli
Giovedì 18 Marzo 2010
Pavese innamorato
della comasca Ponina
In Biblioteca, a Como, le lettere e le poesie inedite spedite nel 1929 alla giovane pianista che avrebbe sposato il filosofo comasco Ciliberti. Le ha riscoperte l'italianista Guarracino e "La Provincia" le presenta per la prima volta al pubblico.
Tutto è cominciato casualmente. Scorrendo le pagine di Ponina e gli anni di Como, dedicate a una figura ormai leggendaria dell'immaginario comasco da Sergio Ferrero e pubblicate da NodoLibri diversi anni fa, nel '92. Quali che ne fossero le motivazioni (curiosità? necessità per un non-comasco di impadronirsi dello spirito del luogo, del proprio ubi consistere?), mi aveva sorpreso il riferimento ad un autore da me amatissimo, a Cesare Pavese, con cui la mitica Ponina, ossia Giuditta Ciliberti Tallone (1904-1997), lasciava intendere di aver intrattenuto in giovinezza qualcosa di (forse) più forte di un'amicizia. L'accenno, rimasto lì a sedimentarsi assieme a tante altre considerazioni intorno ad un autore-culto della mia generazione, si era poi tramutato nell'impulso a saperne di più, dacché il titolare della libreria Einaudi di Como, Giovanni Turano (altro "terrone" come me!), mi aveva svelato l'esistenza in Biblioteca comunale di un consistente fascicolo di testi, tra lettere e poesie, relativi a quel fugace "idillio" giovanile.
Un incontro, quello tra Cesare e Ponina, propiziato dalla musica e concretizzatosi tra estate-inverno del '29 in otto poesie e quattro lettere, indirizzate alla ragazza ma non accompagnate da risposte. Lui è alla vigilia della laurea, che conseguirà nel giugno dell'anno successivo con una tesi su Walt Whitman, ed è in preda a uno dei suoi ricorrenti attacchi di depressione («Adesso mi macero ben bene il corpo e l'anima e così faccio il poeta maledetto, l'angelo decaduto, vado in giro pallido e pieno di genio, sogghigno amaramente... Basta, finiamola, perché mi sento una merda», confessa all'amico Tullio Pinelli in una lettera del 5 settembre), tentato più volte dall'idea del suicidio.
Lei, Giuditta detta Ponina, figlia e sorella di celebri pittori, è una giovane e promettente pianista. Si sono conosciuti in campagna, ad Alpignano, dove entrambi vanno d'estate a villeggiare, e subito ne è sorto un qualcosa che autorizza Cesare ad eleggerla a giudice e musa della sua "miracolosamente" rinata vena poetica. Certo, non tutte le otto liriche sono nate sull'impulso del sentimento per Ponina, almeno a dar retta alle date dell'autografo e ad altre spie interne all'intero corpus dell'opera poetica (basti pensare al fatto che "Pover'anima stanca e imbellettata", datata 25 febbraio '29, è variante di "Pover'anima pallida" del 20 aprile dell'anno precedente); tutte comunque sono intrise degli umori di uno che vive in un'altalena di emozioni contrastanti, tra esaltazione e abbattimenti, in una stagione molto delicata della vita. Di siffatta situazione psicologica le lettere, in data rispettivamente 3 ottobre, 4 novembre e 23 dicembre del '29 e 2 gennaio del '30, sono uno specchio molto fedele.
Così nella prima, datata 3 ottobre, all'indomani di un concerto della sua amica, il poeta, dopo averla informato di vivere «annaspando in una specie di sordità mentale esasperante», deplora la propria incapacità di comunicare («la vita è pesante, è triste e Lei è lontana, e se anche mi fosse vicina, io sarei ancor più chiuso e triste»), auspicando la possibilità di intrattenere con lei un più intimo ed essenziale dialogo («Sono certo che se potessi ascoltare Lei di più e parlarle più a lungo e leggerle i miei poeti, come Lei mi suona i suoi musici, noi scopriremmo insieme meraviglie»). Si capisce dal tenore della lettera che i sette testi poetici ad essa acclusi non dovevano essere dispiaciuti alla destinataria, che alla sua maniera avrebbe risposto, almeno questa è l'impressione del poeta, con un'esecuzione emozionante e magistrale delle musiche di Debussy e Beethoven. La seconda lettera, datata 4 novembre, oltre a essere accompagnata da una poesia, <+G_CORSIVO>La grande città schiacciata dalle nubi<+G_TONDO>, in cui il poeta benedice la «porta di liberazione» che gli pare di intravedere «dietro le nubi, sopra l'orizzonte», esordisce con una nota mai prima riscontrata in Pavese, segno che la giovane Ponina deve aver nel frattempo gradito e incoraggiato la corrispondenza: «Ieri miracolosamente ho scritto qualcosa. Potrebbe darsi che rinascessi. Mi dica lei se ne vale la pena». Drammatica nella sua secchezza, la missiva del 23 dicembre, non riportata nella raccolta curata da Lorenzo Mondo e Italo Calvino (1968): «Perché tutto quanto finora è da ricominciare e così sarà per tutta la mia vita. E scriverei soltanto cose che un mese dopo dovrei mutare. Pavese». Evidentemente qualcosa non ha funzionato tra i due. Forse gli ultimi versi, intrisi di maledettismo decadente, della lirica inviata il 3 novembre: «Sotto il cielo nerastro / io mi dibatto in cose senza senso / che mi martellano come litanie».
Certo è che l'ultima lettera del 2 gennaio è davvero un congedo, molto amaro, da ogni illusione: «Dopo tante esperienze fallite, che appunto fanno solo soffrire per il ricordo, vien voglia di chiudersi gli occhi e la bocca e tacere, sparire. Non ha mai provato una sera, la vergogna, l'orrore, di aver parlato, di aver riso, di essere stata nel mondo, quel giorno?». Sono note, queste, non nuove e nemmeno ultime destinate a ripetersi nella vita di Pavese alla fine di ogni amore. Fatto sta che Ponina da quel punto in poi scompare dalla sua scena. Lui, Pavese, continuerà ad inseguire il suo fantasma d'amore, via via con nomi e fattezze diverse (Dina, la «donna dalla voce roca», Constance), fino agli esiti estremi delle ultime parole del "Mestiere di vivere" del 18 agosto del '50: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Lei, Ponina, qualche anno più tardi, nel '32, sposerà il filosofo Franco Ciliberti e con lui costituirà un sodalizio umano e intellettuale, tra Milano e Como, di grande e feconda intensità.
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