Cultura e Spettacoli
Giovedì 18 Marzo 2010
Dal lager ai romanzi:
la lezione di Lukács
Sabato 20 marzo viene presentato in Biblioteca, a Como, il nuovo libro del medico comasco di origine ungherese, intitolato "Il talmudista". Ebreo, fu internato con la sua famiglia a Mauthausen: su nove famigliari, solo lui e il fratello riuscirono a sopravvivere.
di Serena Scionti
«Questo racconto conteneva inizialmente disagi e solitudine. Nel tempo i disagi sono diventati sofferenze, le solitudini morti, percepite nella carne e nell'anima» (l'autore ai lettori). Un libro scritto con l'anima, quello di Alessandro Sándor Lukács. Come i precedenti ("Un'agente segreta a Mauthausen" e "Via Mala"), questo pure è carico di dolore, anche se «tutti i dolori sono sopportabili, se li metti dentro una storia», dice Lukács nell'esergo citando Karen Blixen. E la storia che egli narra è simboleggiata dal Kol Nidré, la preghiera recitata in sinagoga prima dell'Espiazione, festa del perdono.
Nel frontespizio de "Il talmudista" (Libri Bianchi editore) appare lo spartito del Kol Nidré musicato da Max Bruch, che lo compose rifacendosi all'originale. Il Kol Nidré è il martirio di un popolo afflitto espresso in canto, afferma Tolstoj. Lukacs intona il suo canto per celebrare la Storia del popolo ebraico attraverso una singola storia, con l'auspicio che il suo libro desideri essere riletto, con la speranza che dopo Auschwitz ancora ci sia spazio per scrivere bellezza. Ha tutta l'autorevolezza, Alessandro Lukács, per scrivere e per essere ascoltato: nato in Ungheria nel 1922, ha subito nel 1943 la deportazione in un lager. Dopo la guerra si è trasferito in Italia, dove si è laureato in medicina ed ha esercitato la professione all'ospedale Sant'Anna di Como. Come molti reduci dai campi, Lukács dice che «si impiegano decenni per ricordare quello che si voleva dimenticare». Da qui l'esigenza di testimoniare soprattutto alle giovani generazioni ciò che è stato, con l'augurio che non si ripeta l'identico orrore. Cos'è dunque "Il talmudista"? «Non vorrebbe essere solo un romanzo. Neanche molto di più». Un racconto, che aggiunge un'altra tessera al mosaico della letteratura sulla Shoà. Tutto succede in una notte: Josif il talmudista prigioniero in un lager progetta la fuga, non per sospirata libertà, bensì per porre fine alle sofferenze con la morte: ha con sé una capsula di cianuro che ingerirà dopo aver avuto l'ultimo colloquio con Dio. Un colloquio lungo, disteso, opposto alla brutale semplificazione verbale che imperava nel campo.
Ma vicino ad un cascinale una voce lo ferma: la padrona gli intima di consegnarsi, lo lega e lo chiude in una stanza, per riportarlo l'indomani alle SS. Con la coscienza turbata, tuttavia, Judith - così si chiama la fervente nazista - va a colloquiare col prigioniero, per capire se tutto il male che si racconta degli ebrei è vero. «Chi è un ebreo? Lei che lo è, può dirmelo?».
«Ebrei sono tutti quelli che soffrono, umiliati della storia, esuli. È questo l'ebreo e prima o poi tutta l'umanità potrebbe esserlo». Josif apre a Judith il suo cuore, in un lungo monologo che all'alba - lo sanno entrambi - finirà. Ma qualcosa succede, in una notte sola si compie un miracolo: Josif non uscirà da quella casa. Finita la guerra, egli decide di rimanere nella terra che pure aveva distrutto i suoi cari. Perché, Josif?
La risposta è affidata alle pagine del tuo diario, e dice di Dio, di amore fra un uomo e una donna, di liberazione. Si può modificare il proprio sentire esistenziale in una notte? Sì, per Judith e Josif fu così.
Alessandro Sandor Lukacs, «Il talmudista», Libri Bianchi editore, 240 pag., 15 euro. Presentazione pubblica domani, alle ore 17, in Biblioteca comunale, a Como. Ingresso libero.
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