Cultura e Spettacoli
Mercoledì 30 Giugno 2010
Il comasco Bontempelli,
grande e dimenticato
A 50 anni dalla morte dello scrittore, critico e drammaturgo, l'editore Isbn ripubblica "La vita intensa", il ritratto di una Milano brulicante di vita e di iniziative, che fu un grande successo nel 1919. A parte questa iniziativa, poco o nulla si muove attorno alla memoria di Bontempelli. Lo storico Paolo Bernardini, da "La Provincia", lancia un appello alla rilettura dell'intellettuale comasco, il cui contributo va ben oltre il rapporto di amore-odio intrattenuto con il fascismo.
Cade il 21 luglio il cinquantesimo anno dalla morte di Massimo Bontempelli. Si spegneva a Roma dopo quasi dieci anni di silenzio. Singolare, per uno scrittore così a lungo legato al fascismo, il fatto che l'ultimo suo racconto originale sia stato edito da L'Unità, nel 1951. Seguì un premio Strega molto contestato, nel 1953, e alla fine il silenzio più assoluto, la malattia lo sopraffece così metodicamente che pareva quasi divenuto il personaggio di uno dei suoi romanzi.
Il suo stile, la sua scuola, il "realismo magico", perfezionarono un'epoca piuttosto che aprirne una nuova. E dunque a 50 anni dalla morte giova ripensare questo comasco per caso, figlio di un dipendente delle FFSS. Non è un casuale dunque, ma quasi genetica, la vicinanza al futurismo. Anche se la storia letteraria, e Bontempelli stesso, furono sempre attenti a distinguere il loro surrealismo (suo, di Savinio, di De Chirico), dal futurismo, entrambe le correnti, però, legate a doppio filo con il fascismo. Credo, se celebrazioni verranno fatte, che in almeno due ambiti occorra ripensare Bontempelli. Nel suo legame con Como, innanzi tutto, assai meno fugace di quel che troppo spesso si lascia credere. La vicinanza con Terragni, la direzione, nel dopoguerra, della rivista "Domus", ma soprattutto la razionalità, vero e proprio razionalismo architettonico della frase, dei suoi racconti, l'espressione migliore di Bontempelli, capace di far vivere Milano, soprattutto, quasi come una megalopoli allucinata del futuro, in un diorama spesso abbagliante, mai rassicurante. Nel 1933 fonda la rivista Quadrante, fondamentale per comprendere gli sviluppi dell'architettura razionalistica, e non solo. Ma il Bontempelli fascista, e ardente fascista, torna sui suoi passi, e si ravvede in quel 1938 che vide la morte di D'Annunzio, e la nazificazione d'Italia, con le leggi razziali. Bontempelli è protagonista in entrambi i casi. Il 27 novembre, commemorando le fresche ceneri del Vate, lancia un attacco diretto e senza preamboli alla deriva dirigistica e militaristica del Pnf, da cui viene prontamente espulso. Ma di non minore peso è la scelta di non sostituire nella cattedra di lingua e letteratura italiana Attilio Momigliano, allontanato perché ebreo. Momigliano condivideva con Bontempelli il tormentato, ma fondamentale rapporto con Croce: del resto, chi non poteva misurarsi con don Benedetto in quegli anni? Nel 1925 era stato tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, allora affatto sgradito a Bontempelli. Ora, a cinquant'anni dalla morte, vale la pena di ripensare l'adesione di Bontempelli al fascismo proprio alla luce di quelle prese di posizione, che tradiscono la percezione, per dir così, di un tradimento, che fu propria a moltissimi italiani, non solo intellettuali. Le pagine più belle Bontempelli le scrisse senz'altro nel pieno del suo ardore fascista. "Eva ultima", "La donna dei miei sogni", ma soprattutto "La vita intensa", e "La vita operosa", opere dei primi anni venti. Ma se si leggono i pochi scritti successivi al 1938, fino alla fine delle guerra, si percepisce, ed è qui che occorrerebbe puntare, per questo cinquantenario, una terribile atmosfera d'angoscia e pena, di dolore e tortura psicologica, il realismo magico si declina nel fascismo magico della sorte avversa. La sorte degli individui come metafora, chiaramente, della sorte del mondo. "Gente nel tempo", pubblicato da un piccolo editore nel 1937, e ripreso da Mondadori nel 1946, è storia di mattanza programmata, in cui la morte, quasi come Lenin, fa veri e propri piani quinquennali. Lasciando una famiglia distrutta, proprio negli anni del fulgore del fascismo, per una profezia di un torvo personaggio, la Gran Vecchia, emessa da costei nel fatidico anno 1900. Ma vera e propria metafora della deportazione e dello straniamento, sono i tre racconti, scritti tra il 1939 e il 1941, che vennero riuniti in volume e pubblicati da Mondadori nel 1945, con il titolo Giro del sole. Il primo, "Viaggio d'Europa", è metafora anche troppo chiara di violenza e sradicamento, e narra del mitico rapimento di Europa da parte di Zeus, in veste di toro. Il secondo e il terzo, arricchiti da pregnanti illustrazioni di De Chirico, riguardano rispettivamente il viaggio di Colombo, e quello di Ruggero, e siamo qui in pieno territorio ariostesco, che in groppa all'ippogrifo - il titolo, "Le ali dell'ippogrifo", sposta l'attenzione sull'animale prima che sul suo nocchiero - che da un imprecisato luogo nei Pirenei si reca volando ad una altrettanta imprecisata isola favolosa. Sotto il velame della favola appare subito chiaro che si svolge una tragedia epocale, che si cerca di esorcizzare tramite l'espediente del mito, narrato come in una sorta di lucida allucinazione, serena follia.
Come nel dramma Venezia salva - a lungo obliato - anche qui fa capo quella "imbecillità della storia" che Bontempelli individua e stigmatizza. Occorre dunque ripensare, e rileggere Bontempelli, augurandosi che questi 50 anni dalla morte portino alla pubblicazione di nuovi inediti. Per ora, sia lode all'editore ISBN per la ripubblicazione de "La vita intensa", dove si narra della febbrile Milano del 1919, con tinte tra Boccioni (il dionisiaco) e Magritte (autore così vicino a Bontempelli: l'apollineo). Bontempelli, dunque, tutto (o quasi) da riscoprire..
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