Cultura e Spettacoli
Venerdì 13 Agosto 2010
Un inatteso Borges
nell'Incontro d'autore
Prosegue l'appuntamento di agosto con i ritratti di personalità del Novecento, tratteggiati da quattro "firme" de "La Provincia". Oggi il direttore de "La Provincia", Giorgio Gandola, rievoca un reportage molto speciale a Buenos Aires, sulle tracce del grande poeta e scrittore.
Buenos Aires
«Avevo otto anni e stavo giocando a pallone sul pianerottolo. Lui uscì dall'ascensore, guardò dalla mia parte e disse: ero mancino anch'io». Per Leon, il figlio del portinaio, don Jorge era uno stregone. Lui cieco sapeva vedere dentro i suoni, sapeva distinguere il rimbalzo di una palla – destro o sinistro – in mezzo al frastuono di una fabbrica di nove milioni di operai qual era Buenos Aires.
Calle Maipù è una strada lunga e il numero 994 sta quasi alla fine. Non è così interminabile come il Sunset Boulevard di Los Angeles - in fondo al quale si pensa ci sia gente che non ha mai visto in faccia un postino - ma porta abbastanza lontano da farti uscire dall'urbanistica ed entrare nella letteratura. Il palazzo di sette piani ha il portone in ferro e vetro, l'ingresso in marmo scuro e la targa commemorativa sopra il citofono: un sepolcro fra i clacson. Al sesto piano di quella casa, per 40 anni ha vissuto il viaggiatore più sedentario che la storia della letteratura abbia saputo inventarsi: Jorge Luis Borges, l'uomo che non vinse mai il premio Nobel.
Cieco come Omero, grande come Omero, del quale diceva: «Non era grande perché cieco, era grande perché pazzo». Borges abitava lì in un bilocale con cucinotto, povero e grandioso. Verrebbe voglia di salire, di forzare la serratura e sperare che dentro tutto sia ancora come 24 anni fa quando morì. «Gringo non t'illudere. L'appartamento è stato venduto a un commercialista che lo ha rimesso a posto. E i proprietari del piano di sotto hanno fatto una festa. Ma lo sai che avevano minacciato don Jorge di portarlo in tribunale perché il peso dei suoi libri aveva aperto crepe nel loro soffitto?».
Leon è diventato adulto e non gioca più a pallone sul pianerottolo. È arrivato qui una vita fa da Neuquen con suo padre, il vero e unico portinaio al 994 di Calle Maipù. Gli parli e lui ti osserva con diffidenza dallo spioncino della “porteria”. Apre solo quando si rende conto di non avere davanti il solito cileno che vuol vendere stecche di sigarette. «Quella di Borges è una casa piccola, fredda d'inverno e mas caliente d'estate. Ma guai a dirglielo, s'offendeva a morte. Negli ultimi tempi usciva malvolentieri, andava a sedersi al caffè Marcelote, oltre la strada, sempre al tavolino davanti alla finestra. Mio padre mi mandava a fermare il traffico per farlo attraversare, ma lui non voleva. Diceva che i bambini non dovevano uscire dal loro mondo per mettersi al servizio dei grandi».
Borges l'irraggiungibile. I bibliofili lo adorano, ma il popolo tende a ignorarlo. Mai tirato milioni di copie, mai vinto lo Strega, mai stato ospite di Fazio, per dire. Qualche anno fa una sua mostra antologica a Buenos Aires fu un mezzo fallimento. Per diventare padre della patria avrebbe dovuto schierarsi, invece la destra peronista lo riteneva un comunista e la sinistra barbuda un reazionario. Ma al caffè Marcelote qualcuno lo ricorda ancora, ed è un miracolo in una città che dimentica tutto in fretta tranne Evita, Gardel e un paio di gol di Maradona. «Veniva qui e voleva il suo posto, sempre lo stesso. Diceva che voleva osservare, lui cieco, il quadro più brutto del mondo». C'è ancora. È un rimorchiatore che ballonzola sulle onde rosse del Rio de la Plata. «Ma quando hanno ristrutturato il locale e hanno messo i faretti sul soffitto non s'è più fatto vivo. Non sopportava i colori forti della modernità». È tutto così incredibile in un quartiere che, di quell'uomo di lettere, rammenta solo emozioni visive. Forse perché Borges non era così cieco come voleva far credere. Nel 1955 la sua vista calò come un tramonto: per primi perse il rosso e il nero, poi smise di vedere il blu e il verde. Infine il giallo, "El oro de los tigres", come intitolò una sua poesia: il mantello giallo delle tigri che tanto lo avevano impressionato da bambino durante le visite allo zoo.
Buenos Aires finge indifferenza, ma la sensazione è che tutti sappiano chi abitò al sesto piano. La gente che corre facendosi spolverare i pantaloni dalle fiancate degli autobus, si ferma e recita, come se fosse a un esame di scuola media: «C'era una libreria bianca con tanti volumi. E i quadri appoggiati a terra, e un tavolo con sopra di tutto: medaglie, premi letterari. E una tigre di bronzo». Non è la biblioteca di Babele, descritta in uno dei suoi racconti, ma è qualcosa di più: la biblioteca del paradiso. Chiudi gli occhi sul pianerottolo disadorno e vedi l'interminabile fila di enciclopedie, le infinite edizioni della "Divina Commedia", un'incisione di Piranesi a simbolo della sua passione per i labirinti della mente, una stampa di Durer con un volto che somiglia a Leon, il figlio del portinaio.
Avrebbe potuto passeggiare nei saloni della Casa Rosada, sfiorare il velluto del potere. E invece preferì il bilocale al 994 di Calle Maipù. Con il vicino che gli faceva scrivere dall'avvocato, il ragazzino che palleggiava col sinistro, il rimorchiatore sgangherato in balìa delle onde rosse. Svoltando in Tucuman ti accorgi che il viaggio a Borgeslandia è finito. Resta una domanda: qual era il suo libro preferito? Lo rivelò Maria Kodama, la segretaria-moglie-madre che gli prestava gli occhi: era una raccolta di preghiere in antica lingua sassone. Un giorno lo portò in Inghilterra, entrò in una chiesa e cominciò a recitare il Padre Nostro in quell'idioma incomprensibile. Poi le sussurrò sorridendo: «È per fare una sorpresa a Dio».
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