Cultura e Spettacoli
Giovedì 19 Agosto 2010
Come Lucia salva
la Monaca di Monza
Paola Pitagora, attrice, che nello sceneggiato di Bolchi (1967) diede il volto alla Mondella, ha riscritto la vicenda manzoniana in un racconto ricco di curiosi colpi di scena. Lo commenta per noi il critico Fulvio Panzeri.
Era il primo gennaio 1967 e sul primo canale, in bianco e nero, della Rai andava in onda uno sceneggiato televisivo che sarebbe rimasto nella storia della televisione italiana, sia per quanto riguarda il record di ascolti, sia per l'accoglienza della critica: "I promessi sposi". Sandro Bolchi, il regista, aveva scelto un cast di attori di primo piano, tutti provenienti dal teatro, come Salvo Randone, Luigi Vannucchi e Tino Carraro, e attori di cinema del calibro di Massimo Girotti e Lea Massari, nel ruolo della Monaca di Monza.
La parte di Renzo e di Lucia era stata affidata a due giovani e allora sconosciuti, attori, Nino Castelnuovo e Paola Pitagora, che grazie allo sceneggiato diventarono improvvisamente famosi. La Pitagora frequentava l'ambiente romano degli artisti, dell'avanguardia italiana e aveva già lavorato con grandi registi del calibro di Gillo Pontecorvo e Mauro Bolognini, anche se la grande occasione le era arrivata nel 1965, con Marco Bellocchio, interpretando un film che è rimasto un cult generazionale "I pugni in tasca".
Tutti abbiamo amato l'interpretazione di Lucia, che l'ha fatta diventare un'icona nazional-popolare, anche se negli anni non ha mai smesso di sperimentare, passando dal teatro alla soap all'italiana, diventato uno dei volti più noti negli anni Novanta, di Incantesimo. Nessuno si sarebbe aspettato un suo passaggio alla scrittura, con un libro di ricordi, assai intelligente che rivela una scrittrice di talento. Nel 2001 pubblica da una casa editrice raffinata come Sellerio, "Fiato d'artista" in cui parla dei "suoi" anni sessanta, quello che definisce «un momento irripetibile nella storia della pittura, del cinema e della televisione».
Da allora ha pubblicato romanzi, ma ha anche scritto molti racconti. L'ultimo è stato pubblicato da "Avvenire" nei giorni scorsi (si legge sul sito www.avvenire.it) che per questa estate ha chiesto a venticinque scrittori di inventare un nuovo destino per un personaggio o un finale diverso di una grande opera della letteratura: naturalmente ognuno ha fatto la sua scelta. E la Pitagora non ha avuto imbarazzi, per questi "classici al bivio", nel dare la risposta: «Beh, la proposta è stimolante e mi rendo conto che non ho mai osato ipotizzare destini diversi per i personaggi dei racconti amati. Bisogna riflettere. Così a caldo, e per affinità biografiche, mi viene in mente la frase sintesi, il colpo di grancassa della letteratura italiana, del Manzoni: "La sventurata rispose" …. E se non avesse risposto? Quali forme avrebbe ipotizzato l'Autore e quale (noioso?) destino avrebbe avuto la monaca di Monza, quanti guai evitati, ma».
Molto curioso che l'interprete indimenticata di Lucia, si voglia occupare di Virginia de Leyva. Del resto la Pitagora è una donna che sorprende sempre e quando invia quello che chiama il suo "racconto pitagorico", lo accompagna, raccontando il lavoro di reinvenzione effettuato: «Tutto è nato su un gioco di parole, "La sventurata non rispose"….che poi invece risponderà eccome, mi ha offerto uno spunto. Se è vero che nella scrittura affiora il nostro inconscio, ho fatto fuori Egidio, salvato la vita alla conversa evitando a Gertrude il crimine… ecc, una versione buonista, rispetto all'originale, che Don Lisander mi perdoni. Certo, seguire le orme di quel linguaggio, mi ha divertito assai».
Certamente è una Monaca di Monza meno tragica quella che ha pensato la Pitagora, che ha dimostrato innanzitutto un gran coraggio nel mettersi a confronto con quell'Alessandro Manzoni che ha segnato il suo destino di attrice, questa volta sullo stesso piano, quello della scrittura. E quasi per affermare il legame stretto che ha con il Don Lisander ha voluto il confronto diretto, mantenendo brevi citazioni dalla sua scrittura e poi inventando.
In Manzoni la vita di Gertrude cambia radicalmente quando, cedendo al fascino del bell' Egidio, che abita accanto al convento, si lascia da lui sedurre. Crede di aver trovato la felicità fino ad allora inseguita, ma è solo un'illusione: il suo destino affonda, in breve, dal peccato al delitto. Un giorno una suora conversa minaccia di rivelare ai superiori la tresca amorosa: poco dopo scompare. Viene uccisa da Egidio e sepolta vicino al convento.
La Pitagora salva la conversa: anch'essa viene travolta dal fascino dell'Egidio e una strana complicità la lega a Gertrude, che si accorge della tresca, ma accetta la situazione, per evitare che sia anche lei a pagare lo scandalo della verità. Scrive la Pitagora: «La loro amicizia solidale, che tale non era, appariva alle sorelle accettabile considerati i frequenti malori della Signora, e per i restanti mesi le due monache fecero vita a sé». Danno alla luce due bambini che vengono fatti trovare nella ruota del convento e poi affidati a due contadini. Gertrude però, evita il delitto, ma la sua durezza è evidente, quando non sopporta i pianti della conversa e inizia a perseguitarla. La giovane ragazza perde la testa, ma non la vita. Finirà in altro convento, molto lontano. Secondo la Pitagora, in Olanda.
Chissà perché questa bizzarria in una storia tutta lombarda…
© RIPRODUZIONE RISERVATA