Cultura e Spettacoli
Sabato 21 Agosto 2010
Vittorini, il gran timido
geloso dei suoi appunti
Prosegue l'appuntamento settimanale con alcuni protagonisti del Novecento, narrati da quattro "firme" (la scrittrice Laurana Berra, il critico Fulvio Panzeri, il giornalista Giorgio Gandola, il medico e umanista Livia Porta), che ci terrà compagnia per tutto il mese di agosto.
di Laurana Berra
Elio Vittorini era timido, o almeno lo era con me all'epoca e anche un po' selvaggio. Io che non sono mai stata timida e men che meno selvaggia mi sentivo in certo qual modo contagiata da quella sua evidente difficoltà di comunicare.
Lo scrittore era già ben noto e apprezzato in casa editrice per le sue opere, soprattutto per "Americana", l'antologia dei principali scrittori d'oltre oceano da lui tradotti che nel dopoguerra aveva conquistato un'intera generazione. Eppure l'avevano messo insieme a me, giovane sconosciuta, in quell'ufficio molto piccolo, tutto occupato da un tavolone ingombro di giornali. Per due settimane non scambiammo altro che infrequenti «prego» e «scusi». Io dovevo rivedere un romanzo per la collezione "Medusa", lui non lo so. Stava a lungo con la penna alzata, in atteggiamento pensoso, senza mai rivolgere lo sguardo verso di me. Avevo venticinque anni, ero curiosa, entusiasta della letteratura, degli scrittori e delle case editrici, entusiasmo quest'ultimo che si è notevolmente ridimensionato negli anni. Cercavo di sbirciare i fogli che Vittorini aveva davanti, ma lui li ricopriva con altri fogli, con la mano, con l'astuccio degli occhiali, insomma li nascondeva come fanno i compagni di banco quando temono che li si voglia copiare. Al tempo lo scrittore dirigeva la collana "I gettoni" con un rigido criterio di scelta che non tutti della redazione condividevano. Nessuno osava discuterne con lui, avevano paura che si offendesse. Qualche anno più tardi rifiutò per la pubblicazione "Il gattopardo" di Tomasi di Lampedusa che poi, uscito da Feltrinelli, riscosse largo consenso e conseguenti profitti. Ma con lui non se ne parlò mai. I timidi, con i loro imperforabili silenzi e le loro resistenze passive, hanno una formidabile, incontrastata libertà d'azione.
Vittorini era timido, sì, ma nessuno avrebbe potuto dire che non fosse coraggioso. Quando il figlio dell'editore pubblicò il suo volume di faticate poesie e lo presentò in una libreria affollata di ossequienti impiegati, fu l'unico a muovere qualche critica uscendo a fatica dal suo abituale riserbo. Il figlio dell'editore lo ascoltava assentendo, tutto sommato contento - e di tale rinomanza - lo prendesse sul serio. Gli altri lo guardavano a bocca aperta, trattenendo il fiato. Anche questa volta non successe niente, stranamente il giorno dopo nessuno in casa editrice commentò l'accaduto.
La terza settimana Vittorini e io cominciammo a parlare, e molto poco in un primo tempo, poi ogni giorno un pochino di più come per un allenamento al dire. Era un uomo affascinate, con tante storie nella testa, una testa - per inciso - bellissima, da medaglione medioevale. Non toccava mai, neppure alla lontana, temi personali. Sapevo che la sua vita sentimentale era piuttosto complicata, ma lo sapevo da altri. Quando si dimenticava di essere timido o di avere davanti una persona di genere femminile, la sua conversazione diventava brillante, a volte persino divertente. Ogni tanto mi guardava negli occhi, ma se si accorgeva che lo notavo distoglieva subito lo sguardo imbarazzatissimo, come avesse detto qualcosa di sconveniente. Leggendo le sue opere cominciavo a capire che alla sua tanto intensa percezione della donna nell'immaginario corrispondeva l'impossibilità di accertare la presenza reale, fisica. Quella convivenza mi divertiva, alleviando non poco il peso delle lunghe ore di ufficio. Tentai persino qualche piccolo, innocuo pettegolezzo aziendale, ma non era proprio portato, non c'era gusto.
Rimanemmo insieme per oltre un anno, poi Vittorini traslocò in un altro ufficio certo più consono alla sua fama. Mi dispiacque e anche a lui, credo. Ci davamo ancora del «lei».
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